«Più mi sforzo di sbucciarmi di dosso la mia pelle, più tendo a ricucirmi dentro la mia terra». Così lo scrittore di Comiso si confidava all’amico Sciascia su come gli fosse impossibile dimenticare la sua natura. Com’è impossibile a tutti gli isolani, anche se a volte la nostra terra ci fa soffrire: è da questa sofferenza che abbiamo conosciuto la libertà e l’appartenenza ad una casa oltre ogni latitudine

Lo scrittore ha bisogno della realtà. Si nutre di essa, degli impulsi creativi che da lei prendono le mosse, delle sue forzature e delle sue armonie. A volte basta osservarla per riuscire a trasporla sotto forma di parole; altre volte, la sua superficie è ingannevole, va smussata ed è necessario scavare in profondità, superarla, sconfessarla, per portare alla luce la verità che nasconde. Qualunque sia l’approccio, che divida dalla sua presenza o ricongiunga ai suoi significati, chi vive di parole non può far finta che questo elemento non abbia un ruolo decisivo. Anzi, più la realtà è vicina e pressante più aumenterà il bisogno di scontrarsi con essa. Lo sa bene un nostro grande conterraneo nonché scrittore sublime, ovvero Gesualdo Bufalino. Per tutta la vita i suoi orizzonti di lettura – particolarmente diretti verso la Francia – e la sua esperienza umana gli hanno prospettato la possibilità di fuggire dalla piccola realtà di Comiso dove era nato, di sganciarsi dal suo essere fortemente isolano per esplorare e sperimentare una scrittura più internazionale e lui stesso di prodigò in tali tentativi. Risultati sempre vani: perché l’essere siciliano non è giusto un’etichetta che si può strappare in caso di evenienza. È un marchio sull’anima, una pellaccia inamovibile, una visione delle cose che sa riemergere anche quando la affossiamo.

«Con la Sicilia i miei rapporti sono di qualità schizofrenica. E tuttavia, più mi sforzo di sbucciarmi di dosso la pelle indigena e di promuovermi “totus europeus”, più tendo a ricucirmi dentro la mia terra e la mia civiltà». Fu questa la risposta di Bufalino ad un illustre intervistatore quando gli fu chiesto se fosse vero che all’interno del suo romanzo d’esordio Diceria dell’untore si potessero rintracciare grandi impronte di sicilianità. Quel celebre intervistatore fu Leonardo Sciascia e il dialogo tra i due è oggi riportato nella ristampa 2018 fatta da Bompiani della medesima opera. Bufalino ammette una verità dolorosa: essere siciliani è tutt’altro che facile. Spesso questa identità così forte e dannata comporta dubbi atroci, tentazioni di rinnegamento, disperate ricerche di risposte. È il cruccio del sentirsi – e in fondo dell’esserlo davvero – diversi, dell’essere destinati a percepire il mondo a modo nostro. Con ancora più forza, nel caso di uno scrittore. Perché non importa quanto lontano dalla nostra quotidianità siamo giunti e quanta strada è richiesta per farvi ritorno: il siciliano avrà sempre la sensazione di dover recuperare il suo cosmo originario, quella parte di sé che brama per prendere il sopravvento. Ancora a Sciascia, Bufalino racconta questo emblematico aneddoto: «Mi ricordo che un giorno, a Colonia, nel ’64, durante un viaggio in macchina con un amico, fui colto da un così straziante crepacuore di fronte a un cielo che parlava una lingua lontana che rifuggii verso il Sud a precipizio, sentendo a ogni pietra miliare che mi ci avvicinava una vampata di felicità». Il prezzo da pagare di ogni siciliano: godere della protezione della sua terra, della sua felice disponibilità ad alimentare i nostri sogni e il nostro immaginario letterario. Ma poi inflessibile nel chiederci il fio costante della nostalgia.

Perché è così destabilizzante ritrovarsi sotto un altro cielo? Perché a mancare sono le piccole abitudini, quelle che ci rendono ciò che siamo, quei fatti apparentemente insignificanti che sappiamo riempire di importanza. Essere siciliani è essere inevitabilmente soggetti allo spettro dell’oppressione: siamo spesso infelici, insoddisfatti di ciò che la nostra natura ci ha concesso, ansiosi per un futuro che temiamo non sarà come lo speriamo. Ma è quando si ferma a riflettere che il siciliano trova la risposta a tutti questi interrogativi. È proprio la percezione di questa oppressione, la consapevolezza di essere sospesi tra il Dr.Jekyll della solarità e il Mr.Hyde dello sprofondo a renderci liberi. È l’oppressione la nostra spinta a rialzare la testa, a migliorare le nostre sorti, la benzina che riaccende i nostri istinti. Imparare a convivere con questo lato oscuro è la condizione del nostro equilibrio. Perciò, ogni volta che spicchiamo il volo ma atterriamo da dove eravamo partiti, ogni volta che pensiamo di aver fatto la muta e ci rivediamo sempre uguali, non significa che siamo stati sconfitti. Il desiderio di riabbracciare il nostro cielo, come insegna Bufalino, è la strada verso la felicità. Perché tornare al nostro cielo è vincere sul tempo, recuperare noi stessi. In modo completo.

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