Il peccato di rinunciare a sé stessi: De Roberto e l’ossessione della felicità
Salvatore Terlizzi, protagonista della novella “Il matrimonio di Figaro”, è un abile barbiere, suona il mandolino come nessuno e ama divorare romanzi. Nulla più pretende dalla vita. Almeno finché qualcuno non lo convince di essere sbagliato, di dover inseguire qualcos’altro per potersi affermare. Almeno finché non si innamora. Finirà per dare tutto sé stesso, per consumarsi nell’illusione di dover essere di più di quanto già non è
Secondo una celebre massima appartenente ad Arthur Schopenhauer, «dei giorni felici della nostra vita ci accorgiamo solo quando hanno ormai lasciato il posto a giorni infelici». A guardarla bene, nel profondo dei sogni più reconditi, questa idea di “insufficienza emotiva”, di connaturata inadeguatezza al proprio stato, al proprio presente, somiglia molto spesso ad una frenetica ossessione. Tutto attorno sembra scintillare, promettere qualcosa in più; il cuore che salta all’impazzata verso un orizzonte più radioso, lanciarsi a capofitto nell’ignoto di un giorno che spazzi via ogni abitudine. È quasi un istinto di autoprevaricazione, una spinta insopprimibile ad uscire da sé stessi per approdare all’indefinitezza. E se non siamo noi a prepararci per questo salto, è spesso la voce di qualcun altro a farci notare ciò che potremmo essere. A sindacare sulla bontà delle nostre scelte. “Perché hai intrapreso questa strada? Avresti dovuto certamente fare tutt’altro”. “Ma non vedi che oggi fanno tutti così? Perché non ti adegui?”. Sembra che la felicità sia destinata ad essere eterodiretta, espropriata della propria individualità. Ad essere corrotta, camuffata, imperlata di illusioni che fanno necessariamente rima con ricchezza, ambizione, altezzosità. È un oggetto da ostentare, un trofeo da mostrare. Che poi, tuttavia, come per effetto di un dispettoso incantesimo, si allontana ogni volta che si tenta di afferrarlo. Fino a scomparire in una nuvola di rimpianto. Un tema, questo, particolarmente caro a Federico De Roberto, che seppe declinarlo con la coloritura verista che gli era propria. Quella dell’impossibile scalata sociale, del denaro che sembra innalzare ma che in realtà sprofonda chi lo venera, della rincorsa disperata all’accettazione altrui che rivela una società fatta di arrivisti e approfittatori. Nella raccolta di novelle La sorte (pubblicata per la prima volta nel 1887), infatti, la storia dell’umile barbiere Salvatore Terlizzi assurge ad iconico esempio di come, il più delle volte, ciò che ci rende felici non sta in un fantomatico altrove, ma in una parte di noi che dobbiamo imparare a custodire.
Terlizzi è, nelle mani di De Roberto, che intitolò la novella Il matrimonio di Figaro facendo il verso al capolavoro di Mozart tratto dall’opera di Beaumarchais, un personaggio del tutto singolare. Nonostante i continui appelli dell’amico Agostino ad inseguire uno stile di vita più facoltoso, egli ama rintanarsi nella bottega che la sua famiglia gestisce da generazioni, divorando romanzi ad ogni pausa e intrattenendosi col melodioso suono del suo mandolino. «Fra le mani di Salvatore, cantava come una voce umana e aveva certe note che facevano piangere. In tutta la città non c’era chi gli potesse stare a fronte, e i capi-musica dei reggimenti, e le stesse signore lo mandavano a chiamare per sentirgli suonare quel suo strumento che, come la casa e la clientela, gli veniva dal padre e dal nonno. Ma il grande svago di Salvatore era un altro: era la lettura. Nelle lunghe ore che la bottega restava deserta e non si dovevano affilar rasoi né spazzare capelli tagliati, egli divorava romanzi, seduto dinanzi alla porta, talmente assorto da non sentire né vedere quello che accadeva per la strada. Il Conte di Monte Cristo lo sapeva quasi a memoria, tanto lo aveva letto e riletto». Un giorno, però, qualcosa cambia. L’universo felice, fittizio ma in qualche modo autentico del giovane Salvatore viene sconvolto. Agostino, ancora lui, lo pressa affinché trovi moglie. E una sera, invitato dalla contessa per via del suo talento musicale, il barbiere si imbatte nel volto suadente e delicato di Fanny, la governante: «Salvatore non aveva bisogno di tante istigazioni, perché dal momento che aveva vista la ragazza, in casa della marchesa, gli s’erano risvegliati dei calabroni per la testa, e tutti quei ragionamenti egli li aveva fatti da un pezzo. La sua bottega gli pareva ora ben miserabile. Egli pensava a Fanny, alle ricchezze in mezzo a cui vivevano i signori, al Salone d’Europa tutto splendente di lumi, di specchi, di dorature, dinanzi al quale la gente si fermava, ammirando». Il matrimonio, come nelle favole più incantate, non tarda ad arrivare. Ma con esso anche le complicazioni. Una nuova bottega in centro, più spaziosa e sfarzosa, accoglie Salvatore e i suoi assistenti. È Agostino a sistemare tutte le carte e le condizioni economiche, perché l’amico fa fatica a districarsi tra quelle infime questioni. Ciò di cui si cura è solo l’umore – progressivamente sempre più lunatico – della moglie, che pretende un tenore di vita a tratti insostenibile e intrattiene malcelati rapporti con i suoi innumerevoli ammiratori. Agostino compreso.
Ecco allora l’inizio della fine. Salvatore si umilia per far fronte ai debiti – vende la casa, dà in affitto la sala grande tornando in periferia in un ambiente squallido – senza tuttavia rinunciare all’ingenuo idealismo che lo ha condotto fin lì. «Ed egli tornava pazientemente, ogni giorno, alla sua oscura bottega sempre deserta, ad affilare i rasoi perché non gli si arrugginissero, o a fare i conti dei suoi debiti. Quando capitava qualcuno, mentre la forbice cantava il suo zic-zac, Salvatore cominciava a fantasticare di rimettere assieme qualche soldo, di lasciare quel bugigattolo buio e tristo, di riaprire un salone più bello». La realtà sarà più forte di quell’ultima aspirazione. Nardo, il suo assistente, aprirà una propria attività da barbiere. Agostino, chissà per via di quali speculazioni fatte ai danni dei suoi risparmi, diverrà un arido ed opulente signorotto. E la moglie, petulante, continuerà a tradirlo. «Girando per quelle strade che aveva conosciute povere e quasi deserte, ora fiancheggiate da alti fabbricati e rumorose, egli cercava la sua antica proprietà, e non si raccapezzava. La casa era sfondata, il tetto e i muri divisorii abbattuti come da un terremoto, ingombrando il suolo d’un monte di calcinacci, di travi vecchie e di tegole rotte. Nardo gli era rimasto affezionato, e veniva a trovarlo, dandogli ancora del «principale». Poi cominciò a pensare: — Uno di più, uno di meno!… Quella volta io l’ho rispettato; ma, veramente, il principale è troppo minchione…».
Del giovane, appassionato lettore, intento ad ignorare i comandi del tempo, non resta che un’ombra dissolta in obbiettivi che non erano i suoi. Salvatore aveva venduto la sua semplicità: il costo era stato alto. Era stato sé stesso. La posta in palio, quando si scambia la felicità che abbiamo per quella che non conosciamo, è sempre la medesima.
(Foto in copertina: Kim Musalimov | Unsplash)