L’essenza dell’arte è dare agli occhi dell’anima l’opportunità di vedere. Di scorgere, nell’impressione di qualcun altro, un frammento di sé stessi sospeso tra le pieghe del tempo, ma pronto a riaffiorare repentinamente. Senza questa singolare sovrapposizione, anzi, il più delle volte l’apparente banalità della realtà rimarrebbe confinata in una confusa oscurità dei sensi. L’arte, in fondo, è anche responsabilità: il nobile proposito di rendere manifesto, di sottrarre alla materialità dell’effimero, ciò che altrimenti resterebbe celato. Con questo scopo, a ben pensarci, nel corso della storia sono state commissionate dai potenti le opere più disparate: non soltanto per affermare, con l’esclusività di quella bellezza, la rilevanza del proprio status symbol, ma anche per divenire parte di quella ricerca dell’autenticità. Per serbare, incamminati sulle spalle degli artisti, un ricordo tangibile di quella visione. Emblematico, in questo senso, è il caso delle opere a sfondo paesaggistico, a lungo superficialmente considerate come declinazioni in tono minore della grande pittura e che, invece, racchiudono perfettamente la commistione tra bellezza e funzionalità. A più riprese, del resto, le vedute dal vero furono richieste dagli ambienti altolocati non appena come costosi e capricciosi souvenir di viaggio, ma come vere e proprie rivelazioni di significato. Era prassi, insomma, che per afferrare lo spirito più verace di un luogo ci si affidasse alla pregiata maestria dell’artista. Una dinamica che in Sicilia – patria del Vedutismo se ce n’è una – si verificò a più riprese. Soprattutto per merito di Francesco Zerilli, pittore palermitano vissuto a cavallo tra il XIII e il XIX secolo che divenne, de facto, il narratore dell’isola in Italia e all’estero. Le più prestigiose commissioni – che si trattasse di nobili, signorotti e persino regnanti – passavano infatti dalle sue mani e dalla sua inconfondibile poetica. Nella quale natura e sentimento trovavano un felice e inattaccabile equilibrio.

Già lo storico e critico d’arte Agostino Gallo, suo contemporaneo, ne aveva tessuto le lodi: «È il solo che siasi tra i nostri viventi pittori dato di proposito a coltivare la pittura a tempera nei paesaggi. Egli si è occupato principalmente a ritrarre le vedute dei contorni di Palermo che sono ricercate dai nazionali e dagli stranieri e vengon da tutti lodate per la precisione ed esattezza del pennello, per l’intelligenza della prospettiva e del gioco della luce e delle ombre e per la nettezza delle tinte». Le tempere su carta di Zerilli non si limitavano a restituire degli scorci suggestivi: ne erano, in qualche misura, una fedele amplificazione. Ogni dettaglio, ogni stralcio di luce, ogni contorno, ogni tocco di colore diveniva la traduzione visuale di un’emozione fortemente radicata. Una sfumatura di carattere siciliano, simultaneamente vivace e malinconico, strabordante e sommesso. Ogni elemento, ogni singola minuzia di quelle monumentali vedute – dalle sinuosità collinari di Palermo al Tempio della Concordia dell’allora Girgenti – veniva analiticamente osservato e restituito, ottenendo il suo spazio semantico all’interno della composizione. Ordine e creatività, rigore e passionalità. In Zerilli, insomma, convivevano la lezione del Neoclassicismo e quella incipiente, ma già impetuosa, del Romanticismo. Fu probabilmente questa duplice anima, questa internazionalità legata in maniera indissolubile all’immaginario della propria terra, a fare di lui uno dei paesaggisti più richiesti. Scorrendo sommariamente l’elenco delle grandi figure che si avvalsero del suo talento, emergono nomi piuttosto altisonanti: la duchessa di Parma, Maria Luigia d’Asburgo; l’Imperatore austriaco Francesco I; il duca di Buckingham, tra i più potenti nobili del Regno Unito. Tutti aspiravano alle sue pennellate. Tutti aspiravano alla sua visione della Sicilia, negli anni in cui cominciava ad esplodere la moda del Grand Tour. E chissà quanti altri si sarebbero aggiunti, se la morte non l’avesse colto prematuramente.

A causa dell’epidemia di colera europea che mise in ginocchio anche Palermo, Zerilli morì nel 1837, poco più che quarantenne. Lasciando tuttavia traccia di sé nelle future generazioni di paesaggisti. Ma anche e soprattutto nei luoghi di quella Sicilia che tanto amorevolmente aveva ritratto. E che tanto, ancora oggi, riescono a raccontare di una terra in cui gli sfregi non saranno mai così forti da intaccarne la meraviglia.

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