Quando si pensa ad un intellettuale come Stefano Vilardo, la considerazione più immediata e beffarda che possa sovvenire è che, a volte, essere grandi non è sufficiente per ritagliarsi un posto duraturo nel cuore del grande pubblico. Nemmeno essere un poeta unico nella sua generazione per linguaggio e profondità. Nemmeno aver avuto la longeva possibilità di ascoltare direttamente dalla sua voce ammalianti aneddoti. Vilardo, infatti, ci ha lasciati poco più di un anno fa, il 17 gennaio, a quasi 99 anni: e tutti gli articoli che lo hanno ricordato, nel titolo, hanno scelto di identificarlo all’unanimità come “l’amico e compagno di scuola di Leonardo Sciascia”. Il sodalizio umano e letterario con lo scrittore di Racalmuto è certamente tra i più significativi della nostra letteratura: ma davvero si può ridurre la parabola esistenziale ed artistica di un uomo a riflesso di quella appartenente ad un altro? Non è forse avventato e fuorviante farne una chiave interpretativa totalizzante piuttosto che un dato, per quanto significativo, da inserire in una ricostruzione più ampia e particolareggiata? Perché Stefano Vilardo non è stato appena un lirico tra i tanti: il suo verso lungo e denso, il suo tono al tempo stesso piano e coinvolgente, lo rendono un poeta vate della nostra isola, un prototipo di dolcezza, malinconia e universalità da accostare a giganti come Pavese, Whitman ed Edgar Lee Masters.

Fu Delia, nel nisseno, a dargli i natali nel 1922, e un’infanzia dolceamara che avrebbe inciso profondamente sul suo animo da poeta. A soli sedici anni perse il fratello Luigi, rimanendo da solo con la madre e le due sorelle Angelina e Maria. Il padre, suo malgrado, è una figura evanescente, costretto come numerosissimi siciliani dell’epoca, ad inseguire il sogno americano per provvedere ai propri cari. Fu proprio la consapevolezza maturata in seguito a questa esperienza personale a guidare il suo cammino da artista, cominciato nel 1954 presso l’editore Salvatore Sciascia con la raccolta “I primi fuochi” (puntualmente recensita dall’amico Leonardo) e culminato nel 1975 con Tutti dicono Germania Germania, dedicata agli emigrati irrimediabilmente lontani dalle proprie origini (pubblicata all’epoca da Garzanti e poi riedita nel 2007 da Sellerio). Un’opera corale, introspettiva, accorata, testimonianza non soltanto di una fase storica fortemente connessa e presente alla nostra identità di italiani e isolani, ma soprattutto riabilitazione e cristallizzazione di un genere umano delle cui umili ma straordinarie imprese si sarebbe altrimenti persa memoria. Alludendo ad una delle mete più gettonate di quei viaggi della speranza, Vilardo ne decostruisce il mito, svelando la miseria e la disperazione che i nostri conterranei hanno scelto di abbracciare, sacrificandosi per il bene dei loro cari. «Tutti dicono Germania Germania – monologa un imprecisato io lirico in uno degli stralci più celebri – e se ne riempiono la bocca / come fosse la manna del cielo / a me non ha portato che sfortuna / ma io sono cocciuto come un mulo / e andrò in Germania fino a quando crepo. / I primi giorni tutto mi va bene / trovo lavoro casa / e guadagno che non mi posso lamentare / poi il diavolo ci mette la coda / e vado a finire in ospedale / come quella volta che mi cadde addosso / un sacco di cemento / e mi ruppi tre costole che ne risento ancora. / Parlano della Germania come fosse il paradiso / come se i soldi te li regalassero / invece se non ti sfianchi di lavoro / per dieci dodici ore al giorno / a casa non manderesti che pidocchi». È l’odissea degli sconfitti e dei senza nome, la cerimonia del loro commosso ricordo ma anche della loro ritrovata dignità.

La poesia di Vilardo si fa largo tra le macerie della storia, tra i brandelli della memoria dispersi nel suo impetuoso fluire e riconsegna all’eternità volti, vicende e speranze che ci sono istintivamente vicini.  Dà loro voce e corpo, sottraendole all’opacizzazione del tempo e all’indifferenza delle epoche presenti che ignorano i loro fondatori. Nello sguardo del poeta le avventure (da sempre considerate “minori” e frammentate) di questi umili cuori si tramutano in epica della resilienza e un monito perenne. Quella sofferenza non è stata vana, finché c’è qualcuno che ne custodisce il senso più profondo. Vilardo è stato questo custode di ricordi. Tocca a noi, adesso, custodire il suo.

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