«Di che mancanza è questa mancanza, / cuore, / che a un tratto / ne sei pieno?».

Pochi versi, come quelli folgoranti di Mario Luzi, sanno illuminare le profondità dell’umano al punto da farci cogliere lo scopo della poesia e il bisogno che ne abbiamo. Siamo così: pieni di una mancanza, colmi di un’assenza. Un buco infinito sembra talvolta occupare lo spazio dentro di noi.

«Vorrei toccarla», dice Fiorella, che a questo “buco” ha dato un volto e un nome, «ma non è possibile». Il volto e il nome di questa mancanza è quello di Ester, sua figlia, che si è tolta la vita due anni fa. «Sì – osserva – tante cose sono di aiuto, ma io avrei proprio bisogno di toccarla».

A questo infinito bisogno a cui nulla sembra potere dare risposta adesso ha dato un nome, è vero, ma quella voragine che stava come l’abisso davanti alla soglia della porta di casa, c’era già prima. Prima che Ester non ci fosse più; nel cuore della vita buona, tranquilla, senza drammi. «Solo – dice – aspettavo che quella sensazione passasse». Bastava attendere un poco e le cose da fare, i pensieri da inseguire, travolgevano di nuovo l’esistenza, acquietandola. Adesso Fiorella sa che non passerà,

La grande domanda che attraversa la storia è se questa tristezza “fino alla morte”, di cui parla persino Gesù nel Vangelo, se questo desiderio struggente di un bene assente, attende invano qualcosa che non esiste, oppure è il segno dell’Infinito che bussa alla porta? Che bussava già prima che lo chiamassimo: “figlio, “madre”, “successo”, “fallimento”, che ci sarebbe ancora se tutto tornasse come una volta; che c’è anche adesso in chi ne gode la presenza. 

Questa alternativa radicale accompagna la Quaresima. L’alternativa, cioè, tra il nulla a cui arrendersi e il corpo dissolto dalla morte da implorare di toccare di nuovo. Si tratterebbe di un’opzione irrazionale se non fosse per il fatto che Dio si protende dal principio del tempo verso il grido di Fiorella e di ogni uomo. Non è forse questo l’annuncio del Vangelo? «Si è fatto carne, è risorto!». Un fatto già realmente avvenuto come profezia di ciò che accadrà a Ester e ai nostri figli. Un fatto così corrispondente al desiderio di ciascuno da sembrare quasi incredibile.

Risuona, infatti, la domanda decisiva di Dostoevskij: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?». Ma l’uomo a cui si rivolge il grande scrittore russo, l’uomo (post) moderno, incline a sperimentare ogni cosa, è ancora disposto a verificare ciò che già crede di sapere?

Rivolgo la domanda alla giovane umanità del terzo millennio che mi sta davanti in classe. «Può un uomo risorgere?» chiedo ai miei alunni a pochi minuti dalle vacanze pasquali. Sofia, benché ammerrta di essere intrisa dello scetticismo che pervade il nostro tempo, sorprendentemente, dice di “sì”.

Racconto loro dell’eco che le parole di Fiorella hanno destato in me. Non una fede cieca ci è chiesta, infatti, ma il cammino di una verifica. Da fare insieme. Il guaio non è appena che non crediamo ai testimoni di quel fatto accaduto duemila anni fa che incontriamo oggi, come il volto di papa Francesco, o che non ascoltiamo il Mistero che abita i versi dei poeti che ci descrivono fino al midollo; il dramma sarebbe non prendere sul serio ciò che la vita ci grida senza tregua per condurci a toccare ciò che solo ci può colmare.

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