Parlando di tè, molti, senza dubbio, penseranno a paesi asiatici come Cina o Giappone quali luoghi di produzione, immaginandolo come una bevanda d’importazione. Nonostante la tradizione veda la Cina come madre patria della Camellia Sinensis (nome scientifico della pianta da tè, ndr), però, gli studi di Salvo Pellegrino vogliono la Sicilia quale seconda terra con la produzione più antica. Pellegrino, coltivatore di Raddusa, spiega infatti come nel 950 d.C. la nostra isola rappresentasse la porta d’ingresso per le innovazioni provenienti dall’oriente. «Fu proprio in quel periodo – racconta Salvo – che, grazie all’amicizia di un emiro arabo con l’imperatore cinese, la pianta del tè arrivò sulla nostra isola».

DAL TÈ ALLA SETA, LE PIANTE CINESI CRESCONO MEGLIO IN SICILIA. La coltivazione del tè, seppur meno remunerativa e più ostica, ad esempio, degli agrumi, proseguì per molti secoli favorita dalle condizioni climatiche offerte dall’isola. «Addirittura, nel 1600 – spiega Salvo – la Cina mandò in Sicilia una delegazione di studiosi. Questi vissero qui per vent’anni, cercando di capire perché alcune delle loro piante crescessero meglio nella nostra terra piuttosto che nel loro Paese». Tra le coltivazioni, oltre a quella del tè, figurava anche il gelso, alimento essenziale per i bachi da seta. «La Sicilia, infatti – precisa il coltivatore raddusano – era anche il primo fornitore di seta per i signori d’Europa».

IL TÈ COME ALIMENTO E PIANTA OFFICINALE. Fino a non molto tempo fa, inoltre, la tradizione voleva che il tè venisse mangiato piuttosto che bevuto. «Se ne nutrivano i viaggiatori per non addormentarsi durante il viaggio. – racconta Pellegrino – All’epoca si temevano, infatti, gli attacchi dei banditi durante la notte. Grazie alle piante da tè – aggiunge – era possibile rimanere svegli anche 5 o 6 notti». Soprattutto però, le foglie del tè venivano utilizzate come piante officinali per curare le infezioni intestinali. La bevanda che tutti conosciamo oggi, invece, verrà creata solo in seguito. E ancora oggi, però, un Paese mantiene la tradizione originale: «La Birmania è l’unico posto dove il tè viene tutt’ora mangiato e non bevuto. – spiega Salvo – Viene invecchiato nelle canne di bambù, pressate le foglie, e appena la canna si spacca il tè è pronto. E viene servito nell’antipastiere. Quando in Birmania vi invitano a prendere un tè non si beve, – afferma sorridente – si mangia. Nelle strade della Birmania, però, gli immigrati indiani lo vendono come bevanda calda».

LA SCOMPARSA DOPO LA FINE DELLA DOMINAZIONE ARABA. Agli arabi, in Sicilia, si succedettero i Francesi e gli Inglesi. «Questo segnò la fine delle piantagioni di tè siciliane. – ammette Salvo – Perché entrambi si disinteressarono di questa pianta, abbandonandone la coltivazione». Nonostante tutto, però, alcune piante sopravvissero in condizioni di autonomia. Protagonista dell’abbandono del tè siciliano, poi, fu anche Goethe: «Goethe, nel 1787, in visita al principe di Gravina, venne accompagnato a visitare l’Etna. Mentre salivano – racconta Salvo – incontrò degli inglesi che avevano con loro delle teiere contenenti il loro tè. Allora li rimproverò: “Perché, essendo in Sicilia, non provate il tè che hanno qui? Perché dovete fare sempre gli inglesi?” Su questo ha scritto anche una poesia che si studia in Germania al classico».
Va sottolineato come a cavallo tra il ‘700 e l’800 un nobile siciliano, grazie al fratello ambasciatore in Giappone, riuscì a far giungere a Messina un carico di semi di tè, con l’intenzione di produrre la pianta per poi venderla agli inglesi. Anche questo tentativo, però, venne soppresso dopo l’unità d’Italia.
Una prima svolta, invece, si ebbe durante il ventennio fascista, quando Mussolini bandì il caffè, favorendo la diffusione del tè. Nel 1929, infatti, venne creata l’ATI (Associazione Tearia Italiana), che aveva il compito di gestire il tè importato e smistarlo dal porto di Genova in tutta Italia.

LA RIPRESA NEL XXI SECOLO. Oggi, in Sicilia, alcuni piccoli coltivatori hanno ripreso la produzione delle piante da tè. Anche Salvo Pellegrino, nella sua “Casa del Tè” di Raddusa, è riuscito a creare la sua piccola piantagione. «Le tipologie principali di tè sono sei. – spiega – Si va dal tè nero a quello bianco, passando per il giallo, il pu’er e l’oolong, ognuno con un diverso grado di fermentazione. Invece, nel mio terreno, produciamo il tè verde, poco fermentato e subito pronto alla lavorazione». Nel corso degli anni, poi, Pellegrino ha sperimentato ed accoppiato il suo tè verde con una grande varietà di prodotti, tutti offerti dalla nostra terra. Si va dal mandarino al verdello di Giarre, passando per il pistacchio di Bronte e lo zenzero homemade che Pellegrino produce nello stesso terreno. «Le possibilità sono infinite – spiega il coltivatore – basta dare spazio alla fantasia».

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