«La vena del poeta è sì abbondante, la lingua sì leggiadra, il verso così armonico e facile, il colorito tanto naturale, che la Sicilia dimenticò tutti i predecessori e rivolse gli occhi al nuovo venuto, spingendolo con applausi e favori a pervenire a quella gloriosa meta a cui la natura lo aveva destinato». Così, in uno dei primi esemplari di Storia della letteratura italiana pubblicati nel nostro Paese, Paolo Emiliani Giudici, nativo di Mussomeli, tesseva le lodi di un suo illustre conterraneo. Un intellettuale prismatico a dir poco, capace di spaziare con naturalezza tra i generi letterari più vari: dalla lirica alla drammaturgia, dalla satira al trattato filosofico, senza dimenticare la favolistica. Ma Giovanni Meli, nell’Europa illuminista e romantica a cavallo tra XVIII e XIX secolo, fu molto più che questo: fu un vero punto di riferimento per gli aspiranti letterati dell’epoca, uno dei primi vati dalle cui labbra l’opinione pubblica non poteva fare a meno di pendere, un lungimirante sperimentatore che amava scovare avidamente fonti d’ispirazione sempre nuove da combinare nella stesura delle proprie opere. La più grande testimonianza della sua grandezza, tuttavia, risiede nell’essere stato capace di estendere la propria influenza oltre i confini cronologici della sua attività da letterato. Arrivando a stuzzicare la fantasia di colleghi epocali come Goethe e Leopardi.

Amava scrivere anche e soprattutto in dialetto, il Meli. Il suo testo filosofico L’origini di lu munnu venne giudicato da un altro grande commentatore, Francesco De Sanctis, come un «capolavoro di critica feroce». D’altronde, non temeva la censura dei potenti contro cui si scagliava o il dissenso di quegli esponenti del mondo culturale ancorati ad un concezione dell’arte e del pensiero ottusamente tradizionalista. Basti pensare al poemetto del 1762 La fata galante in cui i due schieramenti sono sapientemente opposti e tratteggiati, o alla rivoluzionaria inchiesta del 1801 intitolata Riflessioni sullo stato presente del Regno di Sicilia, nel quale il poeta dichiara senza mezzi termini di voler «parlare di tutto quell’immenso numero di parassiti, di cui abbondano le città del Regno e specialmente la capitale, che si nutrono del sangue e de’ sudori degli uomini onesti e industriosi». Fu, del resto, un vero antesignano della comunicazione: i suoi versi – sia che fossero appassionati inni d’amore sia che fossero strali acuminati contro il mascalzone di turno – passavano rapidamente di bocca in bocca, con una viralità eccezionale per l’epoca. Non sorprende, quindi, che l’eco delle imprese di una tale figura, assurta a “poeta nazionale” della Sicilia, fosse arrivata alle orecchie prestigiose di Goethe e Leopardi. Come confermano alcuni, evidenti dati testuali. Sappiamo che una delle opere più note dello scrittore tedesco, notoriamente legato alla Trinacria, è senz’altro Le affinità elettive: meno noto, ma incredibilmente significativo, è che Meli scrisse una sorta di saggio epico-mitologico dal titolo Discorso sulle attrazioni elettive adombrate nella mitologia degli antichi poeti e che entrambi celebrino l’amore come potenza che permea e vivifica il mondo. E che dire della donzelletta leopardiana? Quella che, ne Il sabato del villaggio, intenzionata ad ornare «il petto e il crine» con i fiori appena raccolti, appare interamente modellata su uno spunto de La fata galante in cui si legge proprio «Di che adornarsi e petto, e collo, e crine, / Qui troveria qual è più schizzinosa». Giovanni Meli, insomma, fu un vero traghettatore di cultura, anche nella veste di “traduttore”: a lui si devono Iu sulu Grecu Siculu, trasposizione dei componimenti bucolici di Teocrito, e Don Chisciotte e Sancio Panza, poemetto in versi che ripercorre le orme del grande romanzo di Cervantes.

Nel 1815, poco prima della sua morte, ricevette in dono una moneta d’argento recante la sua effigie da Leopoldo di Borbone, principe di Salerno. Nella memoria collettiva, rimane la stravaganza e la forza di volontà di un poeta che non rinunciò mai alla propria libertà d’espressione. Che amava recarsi in solitudine nei pressi di Palermo, precisamente a Terrasini (dove un’incisione su una stele ricorda l’avvenimento) per comporre le sue poesie all’interno della cosiddetta “grotta perciata”. Ma soprattutto l’orgoglio di aver dato i natali ad un genio irripetibile, la cui eredità, ancora oggi, serpeggia prepotentemente nelle invettive sociali dei nostri poeti dialettali, nelle serenate in musica da dedicare all’amata, nei racconti gialli che tanto la nostra isola ha esportato negli ultimi anni. Perciò, quando sentiremo dire che Roma ha i suoi cantori in Belli e Trilussa, Venezia in Goldoni e Milano in Porta, non dimentichiamoci di far notare come un posto di diritto, in questo singolare Olimpo, spetta proprio al nostro Giovanni Meli.

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