Il vero poeta
squarcia le coscienze:
Ignazio Buttitta,
la voce degli sfruttati

A cosa serve la poesia? Cosa si cela dietro la sua patina così finemente ed esteticamente affascinante, dietro la sua fitta rete di rimandi metrici e stilistici, dietro il suo linguaggio talvolta trasognante, talvolta diretto ed acuminato come la lama di un coltello? E perché è ancora necessario che esista, insieme a qualcuno che la canti? In un’epoca che sta progressivamente perdendo l’abitudine alla lettura e alla scrittura, simili questioni appaiono tutt’altro che banali. Interrogarsi sul senso più profondo della poesia, carpirne l’unicità, significa acquisire la consapevolezza che non è appena una nenia consolatrice che ci affranca dai nostri stress quotidiani, ma un oracolo da interrogare nella radicale ricerca di noi stessi. Ignazio Buttitta si è spesso interrogato su quale fosse il ruolo del poeta nel contesto del nostro vivere civile: a questo tema dirimente ha dedicato componimenti ed esibizioni di piazza, giungendo sempre alla conclusione che non può esistere lirica miope dinanzi alle piaghe sociali. La voce del poeta, piuttosto, deve essere uno stendardo contro le ingiustizie, una continua e imperterrita mistificazione delle ipocrisie dei potenti. Una missione che al nostro conterraneo risultava già chiara nel lontano 1954: quando con la sprezzante salacità che lo ha sempre contraddistinto, ha messo in rima la vera essenza del fare poesia.

In quell’anno, infatti, Buttitta, all’interno di Lu pani si chiama pani, compose una lirica provocatoria fin dalla sua intestazione: Non sugnu poeta. Scagliandosi contro i colleghi – o sedicenti tali – che preferivano accomodarsi su vuoti sentimentalismi e su cliché retorici fin troppo abusati, lo scrittore di Bagheria si distaccava da questa schiera di scribacchini, per ribadire come l’onestà del proprio operato sia preferibile rispetto a qualsiasi forma di servilismo e di tronfia vanagloria. Un vero e proprio inno all’autenticità e alla difesa di chi non ha voce: «Non pozzu chianciri / ca l’occhi mei su sicchi / e lu me cori/ comu un balatuni. / La vita m’arriddussi / asciuttu e mazziatu / comu na carrittata di pirciali. / Non sugnu pueta; / odiu lu rusignolu e li cicali, / lu vinticeddu chi accarizza / l’erbi / e li fogghi chi cadinu cu l’ali; / amu li furturati, / li venti chi strammìanu li / negghi/ ed annèttanu l’aria e lu celu». Buttitta affidò ad una metafora potente il suo punto di vista: il dovere della poesia non è restituire la bellezza di qualcosa che splende già di per sé. Non è elogiare l’astrattezza o il ritrito: è, piuttosto, sbaragliare le certezze che pensiamo di aver consolidato, scuotere e tramortire le coscienze anestetizzate e rassegnate, lottare affinché la bellezza si espanda fino a diventare condivisa e tangibile piuttosto che miraggio appannaggio di pochi. Nessuno, a parere di Buttitta, può arrogarsi il diritto di definirsi poeta senza questa intima e nobile pulsione. Come un altro estratto della medesima lirica ben chiarisce: «Non sugnu poeta / ma siddu è puisia / affunnari li manu / ntra lu cori di l’omini patuti / pi spremiri lu chiantu e lu / scunfortu; / ma siddu è puisia / sciògghiri u chiacciu e / nfurcati, / gràpiri l’occhi a l’orbi, / dari la ntisa e surdi / rumpiri catini lazzi e gruppa: / (un momentu ca scattu!)… / Ma siddu è puisia / farisi milli cori / e milli vrazza / pi strinciri poviri matri / inariditi di lu tempu e di lu / patiri / senza latti nta li minni / e cu lu bamminu nvrazzu: / quattru ossa stritti / a lu pettu assitatu d’amuri: / (un mumentu ca scattu)… / datimi na vuci putenti /  pirchi mi sentu pueta: / datimi nu stindardu di focu / e mi segunu li schiavi di la / terra/ na ciumana di vuci e di / canzuni: / li sfarda a l’aria / li sfarda a l’aria / nzuppati di chiantu e di sangu».

Non inchiostro, dunque, a guidare la mano del poeta: ma grida, miseria, polvere, disperazione. Sono questi i propellenti del canto poetico. Un canto che brama sincerità, libertà, indipendenza. Un canto che tende la mano agli sfruttati per svincolarsi congiuntamente dal giogo del padrone. Perché la poesia, in fin dei conti, è scomoda. E a questo serve oggigiorno: a sussurrarci all’orecchio che il mondo non va come dovrebbe. A ricordarci che tocca sempre fare un passo in più di quelli che crediamo sufficienti. Che ci sarà sempre un posto per ciò che è scomodo. È grazie ad esso che riusciamo a dare forma ai desideri di rivalsa.

About Author /

Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

Start typing and press Enter to search