Alcuni indigeni tra Brasile e Perù sono stati ripresi da un drone che vola sulla loro riserva ogni anno per verificare che rimanga incontaminata. Cosa possono insegnarci le loro tribù e le altre poche rimaste? È possibile lavorare 5 ore al giorno e vivere di svago?

Nel caos videocratico del web, un filmato gira in questi giorni: uomini semi-nudi dipinti di rosso o nero, con arco e frecce. Una festa a tema? No, veri indigeni (quelli rimasti) tra Brasile e Perù, su cui ogni anno vola un drone per verificarne lo stato di salute, minacciato da taglialegna, ricercatori d’oro e trafficanti di droga. Gente che vive senza telefono, senza McDonald’s e senza bancomat: pazzesco! Se si venisse a contatto con questa società (cosa altamente rischiosa per loro che non sono immuni neanche al raffreddore) non li si potrebbe corrompere con euro o bitcoin per un cesto di papaya o uno di quei panni che hanno per mutande. E il contatto, da un lato rischioso per la salute, dall’altro lato sarebbe un rischio per l’economia dei colletti bianchi: il sistema produttivo delle tribù selvagge tout court ci fa riflettere su quello in cui viviamo. Leggiamo sul sito Funai (Fondazione Nazionale dell’Indio) che è ancora diffusa l’opinione che si tratti di persone incapaci di decidere per se stesse. Siamo sicuri che sia proprio così?

Da “che cos’è l’uomo?” a schemi eurocentrici il passo è breve. Ed è il passo contro cui lottano antropologi e etnografi come Pierre Clastres, cresciuto a pane e filosofia. Scrive Marx che per capire una società bisogna indagarne forze produttive e rapporti di produzione. Com’è l’economia delle società selvagge? Marshall Sahlins, che le ha studiate, nota che i selvaggi lavorano circa 5 ore al giorno, spesso 2 o 3, con frequenti pause, in base al bisogno. Tutt’altro che società di sussistenza, sono società dell’abbondanza e del tempo libero: potrebbero produrre di più nelle ore restanti ma perché stancarsi se non serve, nota Clastres? Perché non passare la maggior parte della giornata tra innamorati, a giocare con i figli, a rilassarsi davanti a una noce di cocco?

Per le teorie evoluzionistiche, incluso il marxismo, sono società infanzia dell’umanità, destinate a crescere. Ma allora Stato e moneta sono il destino di ogni società? Ci sono parole cariche di fascino, come sole, amore e decrescita. La decrescita felice, di cui parla il filosofo ed economista Serge Latouche, è un progetto economico che ha come obiettivo l’abbondanza frugale: ridurre la produzione e i consumi in vista di un equilibrio fra l’uomo e la natura. Facile capire che presuppone la rottura rivoluzionaria dell’economia vigente, imperniata sull’accumulo, perché tutti i regimi e i partiti moderni (destra, sinistra, centro) hanno posto e pongono come obiettivo la crescita economica. Rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riusare, riciclare, sono gli 8 passi (le cosiddette 8 R) che lo sintetizzano. Un vaniloquio? «L’uomo politico che proponesse un tale programma e che, eletto o meno, lo mettesse in pratica, sarebbe assassinato nel giro di una settimana» sostiene Latouche. Eppure le ricerche di antropologia economica dimostrano l’efficienza dell’economia dei selvaggi, riflesso della legge primitiva «tu non vali meno di un altro, tu non vali più di un altro», scrive Clastres. Il capo primitivo, portavoce del volere della comunità, tale perché lavoratore e generoso, in debito con la società (e non viceversa), ben esprime il loro modus vivendi. A chi chiede se si isolano perché ignari dei vantaggi del nostro stila di vita, il Funai risponde: «In realtà, il futuro che gli viene offerto è solo quello di entrare a far parte della nuova società al livello più basso possibile – spesso come mendicanti e prostitute. La storia dimostra che solitamente i popoli tribali precipitano in una condizione molto peggiore dopo il contatto, e spesso si tratta della morte». Noi invece possiamo apprendere da loro a essere selvaggi, che non significa correre per strada mezzi nudi (per questo esistono spiagge ad hoc) ma decolonizzare il nostro immaginario, toglierci ogni tanto le scarpe e camminare scalzi per ascoltare cos’ha da dirci la natura.

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