Solo da pochi giorni ho saputo della dipartita della mia maestra delle elementari. Conservo ancora splendidi e vividi ricordi della sua presenza quotidiana nella mia infanzia. E ricordo la sua professionale e attentissima dedizione verso i “suoi” bambini. Ricordo il profumo dei quaderni e degli astucci coi colori, ricordo la sovraccoperta che mettevamo sui libri perché non si danneggiassero. Un inutile rimedio, dato che, malgrado tutte le cure, i libri diventavano, già verso la primavera, dei relitti in carta pieni delle tanto paventate orecchiette. In questo contesto mi sovviene come imparai i suoni della T. Un’improponibile filastrocca recitava quanto segue: “Timoteo e Tito tiravano le trecce a Titina, la sorellina che era un po’ tarda”. Dopo oltre trent’anni la ricordo ancora. Mi sembra pure di aver chiesto agli adulti il significato di “tarda” e mi sovviene che feci, per la prima volta, conoscenza coi tre nomi propri “Timoteo, Tito e Titina” che non appartenevano al mio universo siciliano quotidiano, in qualche modo non facevano parte della mia “enciclopedia”.

Oggi sono genitore di una bambina che ha appena iniziato la scuola primaria in Norvegia, che sta imparando i fonemi di una lingua diversa dalla mia, che fa uso della tecnologia in classe, che non impara china sui libri, ma davanti allo schermo dell’iPad. Lei non mette libri nel suo zaino, come facevamo noi, né diario, né astuccio. Tutto quanto è fruito tramite il tablet. I libri di testo sono digitali, le comunicazioni scuola-famiglia viaggiano per mezzo di un’app, i compiti per casa arrivano via messaggi e il genitore firma le assenze con l’identità elettronica. In questa realtà mia figlia sta imparando quella “T” di “Timoteo,Tito e Titina”. Anche lei ha imparato a leggere il suo breve testo sullo schermo, ma cliccando su un’icona per sentire l’audio e per capire autonomamente dove commette eventuali errori. Poi registra la sua voce mentre legge e la invia all’insegnante che, a tarda sera quando mia figlia già dorme, le risponde con un altro file audio.

A Oslo sette bambini su dieci usano il tablet in classe e il piano è quello di avere una copertura totale entro il 2022

Tuttavia, l’Aftenposten, uno dei maggiori quotidiani norvegesi, ci dà notizia di una scuola di Oslo che si è rifiutata di buttarsi a capofitto nel digitale e ha deciso, per il momento, di fare didattica usando i tradizionali libri di carta, le penne, le matite colorate e i quaderni. A Oslo, infatti, sette bambini su dieci usano il tablet in classe ed il piano è quello di avere una copertura totale entro il 2022. Mi sono quindi chiesto se, in questo modo fluidissimo e iper-stimolante di imparare, nel quale mia figlia si diverte e dove pare, almeno fino ad ora, che ottenga dei risultati positivi, si possano nascondere anche dei risvolti negativi.

Decido di parlarne con Debora Carrai, professore associato di glottodidattica presso l’Università di Oslo e coordinatrice di un programma per la formazione degli insegnanti. «Fondamentalmente – spiega – si tratta di una questione economica. Il comune di Bærum ha i soldi per acquistare gli iPad per tutti gli studenti, ma ci sono scuole che non se lo possono permettere e continuano la didattica in modo tradizionale pur integrando il digitale con l’uso del PC in classe». Tuttavia, non è solamente una questione economica dal momento che il governo ha deciso di puntare sul digitale ancora di più nei prossimi anni.

Debora Carrai, Università di Oslo: «Riguardo alla lettura i bambini possono essere facilitati dal digitale, ascoltando l’audio diverse volte ed allenandosi così a leggere»

Secondo la Carrai, la questione è molto ampia e spazia sia sui modi di integrazione del digitale nella didattica, sia sugli effetti che il digitale ha sui ragazzi. «L’ultima volta che ho lavorato nelle scuole risale al 2014 e già allora avevamo un’estrema impostazione digitale». Essenzialmente in Norvegia il digitale è fruito in modo diverso a seconda della scuola. «Ci sono delle scuole che utilizzano solo il pc in classe – continua la Carrai – e usano dei libri che hanno delle pagine con appendici digitali. Poi ci sono le scuole dove l’insegnante manda delle integrazioni alla lezione in classe in formato PDF o delle pagine scannerizzate agli studenti che sono a casa, ma questo ha poco a che vedere con il digitale. Infine, c’è il digitale “spinto”, cioè quello dove la didattica, sia a casa che in classe si svolge per mezzo dell’iPad».

Diversa, come prosegue la professoressa, è la questione che riguarda le abilità e gli effetti del digitale sui bambini. «Riguardo alla lettura i bambini possono essere facilitati dal digitale, ascoltando l’audio diverse volte ed allenandosi così a leggere. Per quanto riguarda la scrittura credo invece che sia diverso. Io che ho sempre studiato le lingue, riconosco il valore di scrivere le parole a mano, anziché al computer. Perché il processo di scrittura a mano è più lento, più elaborato per cui comporta un’attivazione del cervello diversa. Questo è quanto sostengono le teorie scientifiche. Scrivere su digitale è un po’ come praticare il calcio in teoria, senza giocarlo». Continuando a parlare degli effetti sui bambini la Carrai dice: «Secondo alcune teorie già consolidate, ognuno apprende in modo diverso. Ci sono ragazzi che apprendono in modo visivo, altri che apprendono in modo più razionale e cognitivo, ci sono persone che sono più abituate all’ascolto. Per cui facciamo appello ai diversi stili di apprendimento. Il tablet è un po’ a senso unico. Io sono un po’ ambivalente. Non sopporto il digitale spinto, quando si fa tutto su tablet, anche perché iperstimola e abitua, per esempio, alla mancanza dell’uso del tatto».

Debora Carrai: «Un uso critico del digitale integrato al tradizionale metodo “carta e penna”, non può che arricchirci e diventare un’aggiunta piacevole»

«Due anni fa – mi racconta – partecipai ad una conferenza a Trondheim, dove un gruppo di ricercatori tra i quali Ruud Van der Weel, ci spiegava che esiste una memoria meno evidente di quella cognitiva, una memoria implicita, fisica, del corpo. Quindi la fisicità serve e lo stesso Van der Weel introdusse la conferenza con questa metafora: “Noi tipicamente utilizziamo il corpo per fare tutto. Abbiamo bisogno delle mani, dei piedi, della schiena, di muoverci, dell’uso dei muscoli. Però agli alunni, quando arriviamo in classe, chiediamo di parcheggiare il corpo e usare solo il cervello”. Una metafora fantastica». Conclude la Carrai: «Quello che mi preoccupa è appunto il parcheggio del corpo che col digitale diventa ancora più forzato. Un uso critico del digitale, invece, integrato al tradizionale metodo “carta e penna”, non può che arricchirci e diventare un’aggiunta piacevole e un input in più, il problema è che non tutti hanno questo senso critico». Non mi resta quindi che sedermi con mia figlia per scrivere insieme a lei, penna alla mano, le cartoline di Natale da spedire giù in Sicilia.

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