La magia è smarrita: incertezza e distanze nella scuola anti-covid
«Hanno rubato la bellezza della scuola». Con l’espressività che lo contraddistingue, il mio alunno Giovanni va dritto a quello che per lui è il punto. Il nostro istituto funziona molto bene, sia detto subito, e tutto è stato predisposto scrupolosamente per tempo. Allora qual è il problema? Il guaio è che, i ragazzi, il ritorno in classe se l’erano immaginato un po’ come un ritorno alla normalità e così non è stato.
La realtà? «Strana» afferma Giuseppe, pensandoci un attimo; «Stressante» gli fa eco Sarah; «Così è triste» ammette infine Sofia dall’ultimo banco. «Oh, intendiamoci – puntualizza Luca – sempre meglio di prima», eppure essere semplicemente tornati a scuola sembra non bastare. Certo i miei alunni di seconda e terza Liceo Classico, pur ordinatamente distanziati nei loro banchi monoposto, sembrano meno ingessati dei loro compagni di primo anno relegati nel laboratorio al terzo piano. Eppure, anch’essi si sentono imbrigliati dalla rete protettiva fatta di regolamenti e di percorsi obbligati che è stata tessuta attorno a loro per la sicurezza di tutti. «Prof, – sbotta Giovanni – non possiamo avvicinare le ragazze di quarta ginnasio, non possiamo incontrarci con l’altra metà della nostra classe, tutti a distanza, tutto prestabilito. Insomma, non può succedere l’inaspettato».
«Mentre fuori sembra tutto possibile appena entriamo a scuola cala il gelo»
Ha colto bene il nocciolo della questione il mio collega di Italiano: «La preoccupazione per gli spazi ha giocato a discapito della dimensione emotiva e dunque motivazionale dei nostri alunni». Sono d’accordo con lui: la necessità di garantire il distanziamento non deve creare uno spazio deserto di emozioni e di significato. Lo conferma Carlotta dalla fila dei banchi di sinistra: «Mentre fuori sembra tutto possibile, – confessa – appena entriamo a scuola cala il gelo. Si materializzano le distanze, la paura di trasmissione del virus e con essa lo spettro di un nuovo lockdown». Ha paura Marta e non lo nasconde: «Non tanto per me, ma per chi mi sta attorno».
Nei prossimi mesi, nell’attenzione necessaria al rispetto di tutte le regole per evitare a sé stessi e agli altri occasioni di contagio, non si potrà dare per scontato che in questo luogo sacro dell’umano sarà necessario vivere oltre che sopravvivere. La vita, però, non accade automaticamente. Va coltivata. «Ragazzi – chiedo con sincerità – cosa occorre per vivere davvero e non appena per sopravvivere?». L’ipotesi di aspettare che si trovi il vaccino rimanda intollerabilmente nell’astrattezza di un futuro incerto il bisogno concreto del presente. Tanto più che anche durante la quarantena, molti di loro, almeno in alcuni momenti, hanno fatto un’esperienza positiva della circostanza indesiderata e di non averla solo subita. «Ci vuole una compagnia» suggerisce Niccolò riprendendo il tema posto nella mia domanda. «Molta pazienza» suggerisce saggiamente Luca. «Ci vuole un perché» aggiungo io. Una ragione per cui spendere la vita, per “rischiarla” senza accontentarsi appena di conservarla intatta e inutile all’interno di una “bolla sterile” incontaminata, nella quale nulla accade.
Qual è la ragione per cui spendere la vita nel contesto della (post?) pandemia? Non so. È un sentiero impervio e affascinante del quale nemmeno i prof sono esperti
Qual è questa ragione nel contesto della (post?) pandemia? Non so dirlo. Forse per la prima volta mi trovo davanti ad una situazione totalmente nuova, inimmaginata e inimmaginabile. Un sentiero impervio e affascinante del quale nemmeno i prof sono esperti. Bisognerà colmare il distanziamento con tanta attenzione all’umano, a ciò che è fragile in ciascuno di noi, alle domande e alle paure, ai tentativi e ai fallimenti, esaltando la creatività e accettando l’umiliazione dell’impotenza. Occorrerà ricordarsi di avere attenzione per la realtà così com’è, perché, se la bellezza – nonostante tutto – dovesse accadere, nessuno ce la possa rubare.