La permanenza dell’accompagnatore e giornalista e quella dei bambini ad Acireale, utile per trovare sollievo alle difficoltà del deserto, per fare controlli medici e diffondere la causa del loro popolo affinché possa tornare nella sua terra occupata da oltre 40 anni dal Marocco, sono un esempio della possibilità di vivere in pace oltre le differenze. Fra le strade della Trinacria tante braccia hanno trovato aperte. E braccia hanno loro aperto manifestando vicinanza agli italiani per le vittime del crollo del ponte Morandi

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]I[/dropcap] minori sahrawi che trascorrono i mesi estivi in Italia sospendano le attività ricreative in solidarietà con le vittime del crollo del ponte Morandi»: è il comunicato di cordoglio giunto prontamente da parte del Rappresentante del Fronte Polisario in Italia nella giornata del tragico evento genovese. Come passa quelle ore il nostro Salvini? Una foto lo ritrae in pieni festeggiamenti a Messina insieme a una rappresentante della Lega di Acireale. Quanto siano salviniane la città delle cento campane e la Trinacria lo lasceremo decidere dopo aver letto quanto ha da dirci Jalil della sua accoglienza in Sicilia, accompagnatore sahrawi del gruppo di bambini accolti quest’estate all’Istituto San Luigi dall’associazione Terra Futura. Lo abbiamo intervistato alla fine del viaggio mentre prepara il tè, tirando le somme del tempo trascorso in Sicilia, quasi due mesi ad Acireale e una settimana a Termini Imerese. «Ci siamo sentiti membri di una stessa famiglia. Volontari e amici della causa sahrawi hanno fatto grandi sforzi per accoglierci e seguirci soprattutto nelle cure mediche». La loro permanenza ad Acireale, fra le cui strade tante braccia hanno trovato aperte, sono un esempio della possibilità di vivere in pace oltre le differenze. «Noi abbiamo la nostra fede, voi la vostra, ma quando viaggi apprendi che il mondo è differente e che non hanno senso gli estremismi». Le guerre di religione non esistono, concorda Jalil, mentre finiamo il terzo giro di tè. Invitiamo il nostro Ministro dell’Interno a berlo insieme a noi per digerire la cena del 14.

Qual è il ricordo più bello di questi due mesi ad Acireale?
«Tanti, però la cosa più preziosa che conserverò sono le nuove amicizie. Abbiamo visto tante cose nuove: molto di ciò che i bambini, che sono nati nel deserto, hanno visto con l’immaginazione, qui l’hanno conosciuto e vissuto con i loro occhi. Mare, fiumi, boschi, ponti, autostrade, ne hanno parlato in classe, li hanno disegnati. Che siano al corrente di quello che c’è dall’altra parte del mondo è una grande opportunità per loro, perché loro dirigeranno il futuro quando il Sahara Occidentale tornerà libero nella sua terra».

Quale opinione ti sei fatto della Sicilia?
«Ci sono molte differenze perché il mio popolo e il vostro appartengono a paesi diversi, ma quello che più mi ha colpito è che i siciliani sono accoglienti, socievoli e solidali proprio come i sahrawi. Chi ha visitato i campi può confermarlo. Anche se siamo un paese arabo e di religione musulmana, ci differenziamo da tutti gli altri. Siamo una società più aperta, più moderata, a cui piace vivere insieme nel rispetto dei diritti di tutti. È questo che ci differenzia e ci rende simili ai siciliani».

Hai parlato di accoglienza e solidarietà. Quanto è difficile tra paesi che professano religioni diverse?
«È per questo che ti ho detto che ci differenziammo molto dagli altri paesi arabi. Per l’Occidente paesi musulmani uguale a estremisti. Noi non siamo estremisti. Nella nostra permanenza abbiamo incontrato molte Chiese, sempre rispettandole. La struttura che ci ospita è religiosa: i bambini vedono le immagini e i simboli religiosi e li rispettano, sanno che stanno in un paese che ha il suo credo e allo stesso modo la gente di qui ci rispetta quando preghiamo. Ho fatto molto caso a questo. In altri paesi quando vedono musulmani pregare pensano che è gente pronta a fare qualcosa di male. Noi crediamo fino al profondo dei nostri cuori alla pace, al rispetto, all’accoglienza. È il motivo per cui abbiamo scelto la lotta non violenta: la guerra uccide molta gente che non ha nulla a che vedere con problemi politici».

Perché secondo te l’accoglienza è tipica sahrawi? C’entra il fatto di studiare all’estero?
«Sono cresciuto così, fa parte della nostra tradizione culturale. Da ex colonia spagnola siamo abituati alla convivenza tra cristiani e musulmani. Certamente viaggiare incide: si apprende molto dal contatto con altre culture. Io ho studiato a Cuba e, come me, tanti hanno viaggiato per formarsi, convivendo molti anni con culture diverse ma senza perdere la propria identità. Siamo capaci di convivere con qualsiasi altra società».

Hai scritto molti articoli da quando sei qua per la testata sahrawi. Che significa per te essere giornalista?
«Chiunque ama il giornalismo sceglie ciò per cui lottare e io lotto per il mio popolo, per diffondere la causa sahrawi in tutte le regioni del mondo; per questo ho scelto di diventare giornalista, anche se, nonostante l’esperienza, non mi considero tale. Per me il giornalista deve essere poeta, scrittore, deve relazionarsi con il mondo e scrivere in modo da essere capito e arrivare agli altri».

Come pensi sarà il ritorno dei bimbi a casa?
«Si portano con loro un’esperienza indimenticabile: hanno trascorso momenti felici, appreso molto, per cui tornano a casa con la voglia di continuare gli studi e hanno trovato sollievo alla calura dei campi rifugiati nel sud-est dell’Algeria dove vivono. Ma è chiaro che sono felici di riabbracciare le loro famiglie».

È vero che tua figlia è stata in Italia con un altro progetto di accoglienza e che non vuoi portarle alcun regalo?
«Sì, perché ha già ricevuto molti doni in Italia. È la più piccola dei mie figli ed è molto attaccata a me, per questo nei primi giorni non l’ho chiamata per evitare che potesse soffrire la lontananza».

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