Un viandante sperduto nel deserto che con nostalgia ripensa alla verdeggiante oasi che ha lasciato, alla spasmodica ricerca di un segno di salvezza, di un volto o di un ricordo familiare che, come per magia, lo riporti alle confortevoli atmosfere di casa. Così potremmo raffigurare il prototipo del siciliano lontano dalla sua terra, stretto in una morsa secolare tra il dovere della lontananza e l’agonia del rimorso. Un vortice di sentimenti ineludibile, così trascinante da influenzare la nostra percezione del mondo persino quando il nostro spostamento è momentaneo o quando le distanze appaiono tutt’altro che proibitive. Come un’ombra benevola e persistente, la Sicilia prende vita dinanzi ai nostri occhi e riempie di sé ogni manifestazione della vita. Fu Leonardo Sciascia a trasporre in letteratura, e in maniera sistematica, la nostra peculiare attitudine, che lui stesso, in prima persona, sentiva sorgere in maniera istintiva e tumultuosa ad ogni passo compiuto al di fuori dei confini isolani. Francia e Spagna furono le sue mete predilette: non soltanto per l’affezione intellettuale verso mostri sacri del pensiero come Voltaire e Ortega y Gasset, ma anche per una certa assonanza culturale e paesaggistica.

Fu Parigi la città transalpina che più di ogni altra catturò le simpatie e le riflessioni di Sciascia. Il primo libro che gli era capitato tra le mani, del resto, era stato Il paradosso dell’attore, di Denis Diderot. Dei suoi trascorsi francesi, ce n’è uno, particolarmente aneddotico, tramandato dall’amico Vincenzo Consolo, altro intellettuale siciliano dall’anima distintamente internazionale, che ci restituisce un’immagine curiosa e profonda, cartolina di un pomeriggio ordinario nella Ville Lumière: «Una volta camminando, credo a Barbès, con Sciascia abbiamo incrociato una schiera di arabi e Sciascia mi disse “guarda che belle facce di siciliani…”; lui aveva un grande amore per le matrici arabe della Sicilia, e ritrovarle a Parigi… credo lo affascinasse. La Francia ha da sempre avuto la multi-cultura… credo che Leonardo fosse affascinato da questo; perché appunto conoscendo la storia siciliana, sapeva cos’era stata Palermo sotto i Normanni; varie lingue, culture, religioni che convivevano insieme. Per lui era dunque l’ideale della reciproca conoscenza, dell’arricchimento reciproco». Sciascia amava, dunque, riconoscersi in quel caleidoscopio di valori e sfumature che sta alla base della nostra identità. E non è un caso che l’altro polo ideale della sua esistenza, la Spagna, possa vantare una medesima aura esotica: proprio dal ricordo di un lontano passato lo scrittore di Racalmuto traeva il piacere delle scoperte presenti.

Sciascia fu ospite in terra iberica nel 1981 e nel 1984. Testimonianze di queste pietre miliari dell’ultima parte della sua carriera ci rimangono attraverso i resoconti pubblicati sul Corriere della Sera. Passi di bellezza ed importanza inestimabile, a metà fra letteratura e indagine antropologica degna del miglior Pitrè, in cui il fatalismo e il rapporto con l’aldilà dei due popoli vengono finemente comparati e in cui risalgono con naturalezza alla luce della ragione corrispondenze così pure e primitive da ricalcare quelle dell’infanzia trascorsa tra le stradine del suo paese: «Andare per la Spagna è, per un siciliano, un continuo insorgere della memoria storica, un continuo affiorare di legami. E bastano i nomi: di paesi, di strade. Che sembra sentirli risuonare, nella lontana eco del tempo, della voce dei banditori». Fino al punto in cui sembra di attraversare uno specchio fatato e di ritrovarsi in una dimensione dove Spagna e Sicilia si sovrappongono fino a diventare indistinguibili.

Le sensazioni sciasciane non sono appena le suggestioni partorite da una curiosità colta, ma il frutto di una lungimirante saggezza, capace di cogliere connessioni invisibili ad uno sguardo superficiale eppure così solide e presenti da destare sorpresa. Nonché una necessità tutta siciliana: quella di ancorarci alle nostre certezze quando il tempo e lo spazio finiscono per sbiadirle; quella di saperci cittadini del mondo pur mantenendo il nostro baricentro ben piantato. Sicilitudine significa anche questo: riconoscersi mutevoli ma fedeli a sé stessi, rifletterci nell’altro senza essere inglobati. Saper migrare verso l’orizzonte sorvolando il nostro punto di partenza.

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