Jean-François Leroy: «Il vero fotogiornalismo è scoperta del mondo. Per questo vincerà sulle IA»
Il Festival Visa di Perpignan è il festival di fotogiornalismo più importante al mondo. E l’orgoglio per questo dato di fatto emerge tutto nelle parole di Renaud Donnedieu de Vabres, Presidente dell’Associazione Visa pour l’Image di Perpignan: «È al loro lavoro, spesso pericoloso, sempre generoso, che rendiamo omaggio ogni anno a Perpignan, vera capitale e terra di accoglienza per fotoreporter di tutto il mondo. Perché al di là dei fotoreporter da celebrare, Visa pour l’Image e Perpignan sono i luoghi dove il rispetto per questa professione si trasmette al pubblico e alle giovani generazioni; sono anche spazi aperti per sensibilizzare ai necessari dibattiti sul giornalismo, sui diritti d’immagine, sull’autenticità dell’informazione, sul vigore della democrazia. È così che con lo Stato, la regione dell’Occitania, il dipartimento dei Pirenei Orientali, Perpignan Méditerranée Métropole, la città di Perpignan, tutti i partner privati e tutti i team del festival, speriamo che sarete numerosi a scoprire questa nuova edizione. Questo è il modo migliore per dimostrare, insieme a noi, il sostegno e l’ammirazione che dovremmo avere per il fotogiornalismo».
Per l’edizione 2023, tenutasi tra il 2 e il 17 settembre, sono state ventiquattro le esposizioni selezionate da Jean-François Leroy, direttore del festival. 22.000, invece, i giovani che hanno partecipato alle settimane pedagogiche nel 2022. Il tutto condito da un programma ricco di incontri e di eventi, serate di proiezione su uno schermo di 22 metri, una efficace organizzazione e un festival-off a sorpresa.
ALLE ORIGINI. “Visa pour l’image” nasce nel 1989, 35 anni fa, grazie a Jean François Leroy e a Roger Therond, direttore di redazione di Paris Match. Dalle dichiarazioni rilasciate a Carolina Laurent Simon il direttore Leroy non si aspettava una tale longevità: «Tutto è iniziato come una festa e di anno in anno siamo riusciti ad arrivare fino ad oggi. Questo dimostra che il festival è la risposta ad una domanda». La svolta, di certo, è arrivata quando lo sguardo si è spostato sul mondo: «Per internazionalizzare il festival bisognava far entrare gli Stati Uniti. Grazie all’allora responsabile dell’archivio di Life parto per New York e riesco ad ottenere un incontro con Alfred Eisenstaedt – il Cartier Bresson americano – che aveva già circa 85 anni al quale spiego il mio progetto. Dopo 35 anni senza fare mostre riesco a convincere Eisenstaedt a venire al festival con la promessa dell’esposizione nella cattedrale di Perpignan. Ed è stato proprio lui che negli Stati Uniti ha rilasciato favolosi commenti sul festival sostenendo che per essere riconosciuti bisognava andare a Perpignan».
Grazie alla preziosa collaborazione del suo ufficio stampa, nella persona di Sylvie Grumbach, La conversazione con Jean François Leroy si snoda tra il piacere di sentir vibrare la passione mista a competenza e un carattere deciso nel difendere le proprie scelte.
Il primo anno il festival conteneva già 25 mostre e l’unico paese straniero a partecipare, oltre alla Francia, era stato l’Italia. Perché? E cosa rappresenta oggi l’Italia nel mondo del fotogiornalismo?
«Semplice: ero molto amico di Annie Boulat che aveva l’agenzia Cosmos e che rappresentava l’agenzia di Grazia Neri in Francia che ha partecipato al Festival e nel 1989 l’Italia è stata la sola agenzia straniera. In Italia ci sono ottimi fotografi ma non posso generalizzare sulla fotografia italiana. Considero ad esempio Paolo Pellegrin come uno dei migliori fotografi esistenti oltre ad essere un amico. Paolo l’ho esposto nel 1992 quando non era conosciuto, era un freelance e mi aveva presentato un lavoro sui senzatetto a Roma, poi è stato presso Grazia Neri, poi a Vu e poi da Magnum e oggi è una star internazionale. Quindi quest’anno per la 35esima edizione del festival volevo avere Paolo Pellegrin, Pascal Maitre e Stephanie Sinclair che mi hanno accompagnato in tutti questi anni. Ho chiamato Paolo che mi ha immediatamente confermato. Con lui quest’anno abbiamo fatto due cose: una esposizione che considero “sublime” e la presentazione di un suo lavoro in Ucraina dello scorso anno».
D’altronde su Paolo Pellegrin come non essere d’accordo. L’esposizione è veramente straordinaria. Dalla prima esposizione ad oggi sono state realizzati molti eventi con lui, sia in mostre che in proiezioni. L’esposizione è una sorta di retrospettiva dei suoi “anni Visa”. Nelle sue foto c’è tensione, energia, vibrazione. Audace con uno sguardo preciso, tagliente e con una perfetta composizione che rende le sue immagini così esplosive. Amo sempre ricordare che proprio Pellegrin dichiara che Ivo Saglietti è stato il suo mentore. Grazie a Ivo ho conosciuto Paolo diversi anni fa ad Arles.
«Considero sempre “Visa pour l’image” come uno strumento, “un outil” per i fotografi e Paolo tramite Grazia Neri ha visto Magnum e in tutti questi anni ci siamo seguiti a vicenda. Per ritornare alla domanda sull’Italia sinceramente io non mi occupo di nazionalità. Ci sono state diverse presenze italiane come Francesco Zizola, Letizia Battaglia (un grande incontro), Emanuele Scorcelletti e in altre occasioni fuori dal Festival di Perpignan anche Franco Fontana e molti altri. Ma si può ben capire che non posso definire la fotografia in Italia perchè se prendo Pellegrin e Fontana non hanno nulla a che vedere tra loro. Zizola non so cosa faccia da quando è a Noor. Il mio miglior amico è sempre stato Stanley Green e oggi non intendo più sentire parlare di Noor. Tre anni prima della morte di Stanley Zizola aveva fatto un film straordinario sui rifugiati nel Mediterraneo. Stanley è stato uno dei tre fondatori di Noor».
Dal 1990 Visa pour l’Image dà appuntamento ai quotidiani internazionali. Quest’anno 21 testate hanno presentato i loro resoconti e uno di questi quotidiani ha ricevuto il visto d’oro Arthus-Bertrand nella categoria Stampa quotidiana. Purtroppo l’Italia manca. Ho quindi l’impressione che nonostante in Italia – come ricordava bene lei – ci siano degli ottimi fotografi manchi la cultura sulla fotografia. Potrebbe essere questa la ragione per l’assenza dell’Italia?
«Credo che ci sia una mancanza di cultura sulla fotografia in generale. In Francia penso di no, ma i giovani fotografi, in modo generale, mancano di cultura fotografica. Quando avevo 15-16 anni alla Fnac rubavo i libri di fotografia. Oggi è molto più difficile fare questo ma in compenso c’è Internet dove è possibile vedere tutto. Molti giovani fotografi non conoscono nulla, per loro la fotografia si ferma a Salgado e Nachtwey e non conoscono Lewis Hine, Carl Mydans, Alberto Corda, Alfred Eisenstaedt, Philip George, tutti mostri sacri della fotografia. Sa, per i 25 anni di Visa, essendo molto legato a David Douglas Duncan – uno dei più grandi fotografi al mondo, che è morto a 112 anni, un amico, nel sud della Francia – abbiamo dedicato una grande mostra. Molti mi hanno chiesto: “Dove hai trovato questo fotografo?” Allora io rispondevo che Duncan è stato uno dei primi fotografi che mi ha ispirato a fare questo mestiere e quindi ero sorpreso che i giovani non lo conoscessero. Stessa cosa per i reportage di Stephanie Sinclair, molti giovani non sapevano chi fosse. Quindi ciò significa che manca cultura. Oltretutto, la cultura fotografica è molto diversa in Francia e negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti ci sono dei reparti fotografici eccezionali: il New York Times, il Washington Post con dei grandi professionisti, ma lì un festival come Visa non potrebbe afunzionare perché non esiste l’amore del pubblico per la fotografia. Ci sono stati dei tentativi in Germania, in Inghilterra ma non funzionano. In Italia ci sono delle iniziative interessanti ma qui a Visa c’è un grande pubblico».
C’è differenza nella scelta tra fotografi che lavorano per le agenzie e quelli che lavorano per la stampa quotidiana?
«Je m’en fous, non mi interessa. Per me è il talento! Se una foto va bene, se fa leva sui sentimenti, se mi impressiona, se mi fa piangere, se mi fa sorridere, se mi procura un’emozione allora c’est une belle photo, è una bella foto. Se il fotografo è italiano, francese, australiano me ne frego, se lavora con un’agenzia, con la stampa quotidiana, me ne frego».
Ho letto un articolo che è uscito il 2 settembre su “Le Monde” dal titolo “A Visa pour l’image, la révolte iranienne vue de l’intérieur (la rivolta iraniana vista dall’interno)” di Claire Guillot, che recita: “Il festival di fotogiornalismo di Perpignan presenta una mostra dedicata alle foto amatoriali raccolte da due giornalisti di Le Monde. Per una volta, non è un fotografo famoso ad avere gli onori del manifesto del festival di fotogiornalismo di Perpignan, che quest’anno giunge alla sua trentacinquesima edizione. L’immagine è firmata da un dilettante rimasto anonimo…”.
Dall’altro lato lei ha dichiarato a Carolina Laurent Simon che sin dall’inizio ha inserito nel festival i fotogiornalisti delle diverse agenzie, cioè quelli che fanno il fotogiornalismo “duro e puro”. “Le photojournalism citoyenne/Il fotogiornalismo cittadino” è un’assurdità. Quindi come giustifica la mostra sull’Iran?
«Mi assumo completamente la responsabilità e continuo a confermare ciò che ho detto a Carolina ma, oggi, in Iran non si può lavorare come fotografi: è vietato. Se fate vedere una macchina fotografica venite arrestati, imprigionati, torturati, uccisi. Quindi oggi per far vedere l’Iran non ci sono altre soluzioni se non quelle di mostrare fotografie di amatori pubblicate sui canali social. Ed è per questo che ho preso una giornalista iraniana, Ghazal Golshiri, cresciuta a Teheran, corrispondente di Le Monde che è fuggita dall’Iran nel 2019 per paura di essere incarcerata. Grazie ai suoi canali è stata in grado di raccogliere delle foto anonime ma che ci mostrano la realtà della repressione in Iran».
In una foto all’interno di questa esposizione (che ha titolo “Non si muore”, ndr) si vede, di spalle, una giovane fanciulla, senza velo, con i capelli al vento, in piedi sul tetto di un’auto, a guardare una marea di persone venute a commemorare la morte di Mahsa Amini, morta il 16 settembre 2022 dopo il suo arresto da parte della polizia morale per un outfit ritenuto inappropriato.
«Impossibile fare altrimenti. Come dichiarato a Le Monde “Per me questa rivolta è l’evento dell’anno e questa immagine ha la forza del documento”».
L’EDITORIALE
La fotografia avrebbe un nuovo becchino: le intelligenze artificiali generative. Nelle immagini false ultra realistiche che hanno inondato i social media, molti volevano assistere al colpo finale della nostra professione. L’asso. Un prompt sostituirà Eugene Richards? Umilmente, ingenuamente, ferocemente, non la pensiamo così. La fotografia non ha aspettato che Midjourney e consorti venissero minacciati, sconvolti e soprattutto manomessi. Emergenza della fotografia digitale e degli strumenti di editing, morte delle agenzie di archivio a favore delle agenzie di stock in abbonamento (a loro volta indebolite dalla cosiddetta intelligenza artificiale generativa), moltiplicazione delle emittenti e diminuzione del valore di un’immagine con gli smartphone… Eppure, il fotogiornalismo è ancora là. Perché? Perché ciò che ci unisce a Perpignan è la voglia di vedere il mondo. Il vero. Questo bisogno, questo desiderio di realtà rende chi emette informazioni verificate e autentiche ancora più indispensabile di quanto non lo fosse già; e questa proliferazione di contenuti potenzialmente fasulli rende il loro compito ancora più importante, e anche molto più spinoso. Molti chiedono di frenare lo sviluppo di queste IA generative. Un pio desiderio – e altamente discutibile alla luce dei progressi decisivi che si potrebbero compiere in altri campi. Ma chi, può darsi, dovrebbe rallentare dopo due decenni di continue accelerazioni siamo noi: i media. La storia recente – il decollo degli abbonamenti digitali dei media di riferimento che investono ancora ingenti risorse nella produzione di informazioni sul campo – lo dimostra. E in questo nuovo paradigma, l’educazione e la consapevolezza sui media diventeranno più essenziali che mai. Un approccio che cerchiamo di portare avanti ogni anno e gratuitamente da trentacinque anni, per il grande pubblico e le scuole, grazie a fotoreporter provenienti da tutto il mondo.