Interattivo e a misura d’uomo: la nuova vita dell’acquedotto romano di Mongiuffi Melia
L’obiettivo principale da raggiungere nel più breve tempo possibile sarà inserirlo all’interno del circuito del Parco archeologico di Naxos-Taormina e farlo conoscere agli occhi del grande pubblico di appassionati. Fino ad oggi, nonostante tutti i problemi di tipo burocratico e non solo, i Lions Club Letojanni-Val d’Agrò del presidente Filippo Salvia, quello dell’Archeoclub Area Jonica, Filippo Brianni, e l’archeologo Dino Alberto Rapisarda hanno comunque già fatto moltissimo per far conoscere e rendere fruibile al pubblico l’acquedotto romano di Mongiuffi Melia, in provincia di Messina. Un bene architettonico importantissimo su cui l’Amministrazione comunale del centro monfeliese sta puntando da diversi anni, dopo la scoperta del sito di contrada Fanaca, avvenuta negli anni ’80 da parte di Padre D’Agostino e dello storico Giovanni Curcuruto, ma che solo grazie al lavoro di ricerca dello studioso Rapisarda (redatto anche grazie ai suggerimenti dello stesso Curcuruto) è stato messo sotto la lente d’ingrandimento anche dall’assessore ai Beni culturali della Regione Sicilia, Alberto Samonà, che lo ha visitato qualche mese fa. Oltre che dai Lions Club e dall’Archeoclub che, nelle scorse settimane assieme proprio a Rapisarda (esperto del Comune peloritano) e all’assessore comunale, Marcello Longo, hanno installato la segnaletica interattiva.
TRACCE IMPERIALI. Tramite Qr code – realizzato grazie alla competenza di Ketty Tamà -, tale impianto consentirà di vedere direttamente da YouTube sul proprio cellulare un video esplicativo del monumento raccontato proprio dall’esperto del sindaco Rosario D’Amore. Oltre che di leggere e ascoltare la descrizione del bene mediante la piattaforma mondiale di audio-guide turistiche Izi.Travel e di attivare il navigatore Google Maps per arrivare a piedi dal Santuario della Madonna della Catena al sito archeologico. Proprio il Santuario in un futuro immediato sarà il punto di partenza e di arrivo per visitare il bene che – stando alle descrizioni di Rapisarda – è stato realizzato dai Romani, in piena Età Imperiale. «L’acquedotto del Diavolo, come viene chiamato da tutti, – ha spiegato l’archeologo – lungo 25 Km, aveva lo scopo di portare l’acqua dalle sorgive sotto Monte Kalfa all’antica Tauromenium, l’odierna Taormina. E fu costruito verso il II secolo d.C., con calce preparata sul posto. Si trattava di una condotta che misurava 100×50 cm. La copertura era avvolta e l’interno era rivestito di coccio pesto, tipica dell’edilizia idraulica di età romana». Una considerazione che ha delle basi logiche, visto che, nelle campagne circostanti il Comune monfeliese, sono presenti tuttora resti di piccole fornaci sparse qua e là, ormai inutilizzate.
LA CONDOTTA SOTTERRANEA. Il percorso dell’acquedotto era costituito, secondo gli studi, da una sola condotta che, dalle sorgive del Ghiodaro attraversava il territorio montuoso che collega Mongiuffi a Taormina. «Il percorso – ha ancora dichiarato Rapisarda – non era sempre sotterraneo, perché in alcuni casi il condotto era sorretto da arcate in mattoni, come il caso del ponte del Ghiodaro. L’acquedotto arrivava a Taormina sotto le falde del Monte Ziretto ed entrava in città nell’area dell’odierna via dei Cappuccini, ed è probabile che servisse per rifornire le grandi terme pubbliche della città, localizzate dietro l’attuale caserma dei Carabinieri». Un’opera maestosa, dunque, che, secondo l’archeologo di Letojanni, cadde in disuso dopo che, intorno al X secolo, gli Arabi assediarono Taormina e, scoperta l’esistenza di tale struttura, tagliarono le condotte in diversi punti per costringere la città alla resa.
NUOVE OPPORTUNITÀ. Questa in sintesi la storia di un bene – raccontata nei lavori di Rapisarda e presenti in varie pubblicazioni periodiche – che oggi sorge tra sterpaglie e una rigogliosa vegetazione, in molti casi secolare, e che per la popolazione del centro peloritano e non solo rappresenta un vanto. «L’idea – ha dichiarato ancora Rapisarda – è quella di far luce su ciò che ancora è avvolto nella vegetazione. Di lavoro da fare ce n’è moltissimo. Stiamo preparando un progetto da presentare per poter valorizzare ancora di più il sito, con l’aiuto della Soprintendenza ai Beni Culturali. Bisognerà scavare dove è possibile per riportare alla luce gli altri ruderi». Un lavoro che Rapisarda e compagni hanno già programmato e che potrebbe stuzzicare le attenzioni dei tour operator, qualora il sito archeologico venisse in breve tempo inserito nei circuiti turistici dell’Isola.