Nel novembre 1977 il gruppo punk rock Johnny And The Self Abuser cambia nome in Simple Minds e diventa il gruppo scozzese di maggior successo commerciale degli anni Ottanta. Cinque album al numero uno nel Regno Unito e oltre trenta milioni di dischi venduti in tutto il mondo. Contesero agli U2 la leadership nel rock più impegnato, coscienzioso, caldo e furente. La storia dice che oggi gli U2 sono ancora la più grande rock band del pianeta, i Simple Minds restano la colonna sonora di un preciso momento nella vicenda di una generazione. Quella che visse i suoi vent’anni tra 1977 e 1989, che perse l’innocenza con il delitto Moro, che irruppe nell’età adulta al suono del punk, che rispose alla politica “da bere” annodando la cravatta da yuppie o frequentando le posse e i centri sociali. La generazione che la “Pantera” divise in comunisti e ciellini. Quella che digerì la politica dell’uomo forte, da Craxi a Reagan, ma credette al sorriso di Gorbaciov. Quella del Live Aid e della lunga e vittoriosa lotta all’apartheid. La generazione che chiuse i suoi “anni dorati” vivendo ad occhi aperti l’ultimo grande sogno collettivo, il crollo del Muro di Berlino.

«Oggi posso dire di essere nato in Scozia, ma di essere rinato in Sicilia. Mi piace per la cultura, la storia che si respira. Un posto unico, di frontiera. E a me piacciono i posti di frontiera»

«Non è un segreto che i Simple Minds abbiano avuto un periodo davvero difficile alla fine degli anni Novanta», confessa Jim Kerr, fondatore e frontman della band scozzese. «Difficile perché eravamo fuori moda; difficile perché i grandi giorni erano finiti. Ma ancora più difficile perché nessuno di noi aveva la motivazione per andare avanti. Dopo aver suonato negli stadi dove eravamo soliti fare il “sold out”, facevamo rotta verso club che non erano esauriti. L’entusiasmo era sparito, non avevamo più musica in noi. Siamo sopravvissuti soltanto perché ci esibivamo ovunque. Giusto per il gusto di suonare, in modo da non perdere il contatto».

Jim Kerr cominciò ad andare in giro per il mondo. «Decisi di trasferirmi per un po’ in Italia per scoprire con calma cosa volevo. Conoscevo Taormina da un viaggio precedente, nel frattempo avevo imparato l’italiano e ricordavo questo posto come un’oasi di tranquillità. Quando è balenata una opportunità, è nata improvvisamente l’idea di un piccolo bed & breakfast. In alternativa alla musica, che all’epoca era irrimediabilmente in un vicolo cieco. Oggi posso dire di essere nato in Scozia, ma di essere rinato in Sicilia. Non solo perché è bella, per il clima o perché si mangia bene: mi piace per la cultura, la storia che si respira, il fatto che sia un mix. È Europa ma anche Africa, un posto unico, di frontiera. E a me piacciono i posti di frontiera».

Da Taormina è ricominciata la risalita dei Simple Minds che nel 2018 sono tornati nella hit parade inglese, raggiungendo il quarto posto con l’album Walk Between Worlds. E a Taormina Jim Kerr tornerà il 12 luglio, per rivedere gli amici siciliani, ma soprattutto per una festa di musica al Teatro antico dove spegnerà tante candeline: 45 di carriera e 63 di età. Taormina prima tappa di un tour italiano che proseguirà il 14 luglio a Pescara, il 15 a Pistoia, il 17 a Roma per concludersi il 18 all’Arena di Verona.

I Simple Minds sono infatti di nuovo in giro per il mondo. Hanno perso qualche pezzo per strada, come il talentuoso tastierista Mick MacNeil e il muscoloso batterista Mel Gaynor, rimangono solo Kerr ed il chitarrista Charlie Burchill dei cinque pezzi che registrarono il loro singolo di debutto Life in a Day nel 1978, ma Kerr sente che la loro grande avventura adolescenziale non si è mai fermata. Né lo preoccupa l’avanzare dell’età: 63 anni il 9 luglio. «Quando abbiamo fondato la band, i nostri genitori non avevano nemmeno 40 anni. Per noi era del tutto inimmaginabile che a 40 anni tu fossi ancora in una rock band», ride.

«Ci sarà sempre un posto speciale per Waterfront. Non è nemmeno una canzone, è più simile a una poesia di appena otto righe. L’abbiamo scritta a Glasgow ed è la mia canzone preferita»

La formazione in tournée è composta da sette musicisti, tre dei quali donne. «E niente triglie», ride Kerr, facendo notare come i Simple Minds già negli anni Ottanta avevano avuto una cantante donna, Robin Clark. Accanto al nucleo storico formato da Kerr e Burchill, ci sono la batterista Cherisse Osei, Ged Grimes al basso, Berenice Scott alle tastiere, Sarah Brown ai cori. Musicisti che potrebbero essere loro figli. «Ai miei tempi, non ci piaceva ascoltare la musica di nostro fratello maggiore. Abbiamo odiato quella di nostro padre. Volevamo avere la nostra musica», commenta Kerr. «Mio figlio di 25 anni è andato a Glastonbury (uno dei più grandi festival nel Regno Unito, nda). Mi ha detto che i gruppi che voleva vedere erano quelli vecchi! Perché sono autentici, mi ha detto. Come i jeans autentici, un’automobile autentica. I Rolling Stones sono “autentici”. Ai miei tempi, mio padre voleva portarmi a vedere Johnny Cash, ma non volevo ascoltare il country, volevo ascoltare il rock o il punk. In concerto, scherzo su questo: “Ci sono dei giovani qui? Sono i tuoi genitori che ti hanno portato? Stai tranquillo, poteva andarti peggio: avrebbero potuto portarti a vedere Duran Duran o gli Spandau Ballet”. Alcuni anni fa ho visto il concerto di Robert Plant al Teatro di Taormina. Una volta era un dio del rock. Ora non colpisce più le note alte. A chi importa? Lui è ancora autentico. Abbiamo fatto da supporter agli Stones, li guardavamo e pensavamo: “Perché?”. È scritto sui loro volti, sono vecchi blues. E ora sono arrivato ad accettare che questo è quello che facciamo anche noi, è solo quello che siamo».

Celebrativa sarà la scaletta, che andrà dalla resuscitata Act of Love del 1978 ai brani del loro ultimo album in studio Walk Between Worlds, carica di tante hit come Don’t You, Alive & Kicking, Belfast Child, Someone Somewhere (in Summertime). «Ogni concerto prevede 24 canzoni scelte da un pool di circa 40, ma cambiamo cinque canzoni ogni sera perché ci piace tornare ai primi giorni e fare qualcosa di poco conosciuto», annuncia. «Ci sarà sempre un posto speciale per Waterfront… Non è nemmeno una canzone, è più simile a una poesia di appena otto righe. L’abbiamo scritta a Glasgow ed è la mia canzone preferita».

Nello show i Simple Minds eseguiranno come secondo brano I Travel, canzone degli anni Ottanta sorprendentemente aderente alla situazione attuale. «Eravamo ragazzi della guerra fredda», commenta Kerr. «Ovunque andavamo in tour, sembrava che l’Europa fosse in fiamme, che fossero bombe alla stazione ferroviaria di Bologna o una sinagoga a Parigi il giorno dopo la nostra partenza, o la banda Baader-Meinhof, o l’IRA. Canto “Tragedie, lussi, statue, parchi e gallerie” perché tutta quella roba stava succedendo in questi centri culturali. Adesso, questa canzone ha ritrovato il suo tempo. Ho sempre avuto il desiderio di scrivere del mondo mentre gira. Il mondo negli anni Ottanta sembrava più semplice di oggi, più bipolare. Est, Ovest. Comunismo, capitalismo. Apartheid, anti-apartheid. Dovevamo scegliere da che parte stare. Oggi la politica interferisce con tutto: quale caffè bevi, dove vivi, quale plastica riciclabile usi. Abbiamo scritto Belfast child, Mandela, oggi non lo faremmo più … Tuttavia, i temi sono simili: non c’è più guerra a Belfast, ma in Ucraina e nello Yemen sì, e la guerra rimane la guerra. L’apartheid è scomparso, non il razzismo. Vivo una parte dell’anno in Sicilia e ho osservato gli occhi dei migranti quando arrivano su queste barche: passano attraverso un inferno».

Anche per questo c’è ancora bisogno del rock dei Simple Minds.

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