Jorge Luis Borges in Sicilia: il destino incrociato e gli occhi dell’anima

È rimasta celebre, tra le molte massime pirandelliane, quella con cui l’autore de Il fu Mattia Pascal seppe descrivere icasticamente le curiose circostanze della sua nascita: «Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco “Kaos”». C’è quasi, in questa immaginifica e letteraria ricostruzione genealogica, l’idea di un destino che precede la coscienza. Di un legame cosmico che travalica la volontà e si impone come stella polare del cammino di una vita. Di una ragione indissolubile per non smettere mai di inseguire le stimmate della grandezza. Anche quando la loro ricerca conduce in luoghi lontani, scrutati soltanto tra un pensiero e l’altro, eppure improvvisamente disposti a rivelare la loro familiarità una volta afferrati. Deve essersi sentito così Pirandello ogni volta che le sue peregrinazioni gli davano occasione per ricordare la matassa di suggestioni primordiali da cui aveva spiccato il volo. Deve essersi sentito così anche Jose Luis Borges quando nel 1984 approdò nella tanto agognata Sicilia. Rivolto anche lui fin dalla nascita, fin da un nome che ne aveva plasmato la genetica, alla scoperta di quel sogno: era nato, infatti, nel barrio Palermo, il quartiere più esteso di Buenos Aires. Sentiva che l’isola, e il suo capoluogo, gli scorrevano nelle vene: l’aveva vagheggiata in tutte le sue forme i suoi colori, studiata con la passione e la minuzia di un archeologo dei ricordi, racchiusa ed esaltata nello spazio di un verso. S’era messo in testa di toccarne lo spirito, di accarezzarla dolcemente come si fa con una madre al termine di un lungo distacco. E c’era finalmente riuscito, accompagnato dall’amata María Kodama, quando la casa editrice palermitana Novecento lo aveva insignito del premio Rosa d’oro. Sì, c’era proprio riuscito. Anche se, per ironia della sorte, quando ormai da una decina d’anni la vista lo aveva abbandonato.

«Ricordo che Borges era molto contento di andare in Sicilia. Per lui – ha raccontato la moglie – era una sorta di viaggio iniziatico alla scoperta di Palermo, la città da cui si origina il nome del suo barrio natale, e dell’Isola di Omero e dei filosofi greci a lui tanti familiari, fin da bambino». Poteva forse un amore così viscerale cedere alla fragilità dei sensi? Poteva forse quell’affresco della fantasia che Borges aveva tratteggiato fin da ragazzo rimanere oscurato agli occhi dell’anima? Certamente no. Perché in quella dimensione immortale come i miti che lo avevano nutrito, in quello spazio idealmente indistinto in cui coesistevano grecità e sicilianità, saldati da un sentimento di fratellanza e di reciproco richiamo simile a quello condiviso dall’Iliade e dell’Odissea che portava con sé durante le sue passeggiate isolane nelle due tasche del vestito, Borges si sentiva a casa. Non aveva bisogno di vedere, perché aveva già visto. Nella sua mente Palermo, Selinunte, Agrigento erano già una vivida realtà. «I templi – diceva Kodama in un’intervista rilasciata nel 2010 a Buenos Aires al quotidiano La Repubblicali ri-conosceva attraverso gli scritti dei filosofi dell’antichità. Ha insistito per visitare le rovine di Agrigento, la patria di Empedocle, e di Selinunte. Mentre accarezzava le colonne mi chiese di leggergli qualche brano di Omero… Così Borges vedeva». Una vista potenziata, autentica. Una vista della memoria che si manifestava nel tatto e nell’ascolto. In mezzo all’imponenza di quei monumenti, Borges stesso era uno di essi. Vivente e pulsante come la passione che lo aveva condotto al loro cospetto. Come gli astri che si erano allineati affinché, due anni prima della sua scomparsa, potesse tornare all’origine del suo pensiero. In quella terra che tanto gli aveva dato e che, non a caso, tanto a lui, nelle parole di diversi scrittori nostrani, deve.

Diceva Andrea Camilleri: «Da quando non vedo più, vedo le cose più chiaramente». Chissà che, indossando i panni di Tiresia, non pensasse proprio a Borges, il quale sosteneva che «la cecità è una clausura, ma è anche una liberazione, una solitudine propizia alle invenzioni, una chiave e un’algebra». La stessa chiave con cui lo scrittore argentino è riuscito a scardinare la superficie delle cose. A gettarsi a capofitto in un turbine di nostalgia. E svelarci il contenuto di uno scrigno di segreti che facciamo ancora fatica a vedere.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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