Il problema con il Giorno della Memoria è che spesso viene associato alla tragedia di altri, a un incubo che tanto non abbiamo sognato noi, a un calvario che non hanno attraversato i nostri familiari – a una piega spiacevole nel vestito della storia, insomma, che però a guardarla da lontano non ci disturba poi troppo. Ci sentiamo sollevati, quasi fieri, all’idea che l’olocausto con noi non c’entri quasi niente, in particolare poi nel sud Italia, dove lo stesso fenomeno della Resistenza non è stato massiccio quanto in altre aree della penisola.

Per di più, il 27 gennaio condivide con altre Giornate Mondiali un difetto intrinseco: parlare della Shoah durante il resto dell’anno si può, ma limitatamente. Il diritto di (e l’interesse a) trattare pubblicamente l’argomento, sviscerandolo con manifestazioni, approfondimenti, mostre e così via, sembra essere percepito più nella stagione invernale che nelle altre tre, come se poi “passasse di moda” e non venisse avvertito con la medesima, accorata gravità. Naturalmente, si tratta di una distorsione tutta umana di una ricorrenza-simbolo, che invece dovrebbe spingerci a chiederci nei restanti 364 giorni quale sia il nostro rapporto con i tragici fatti del secolo scorso e quanto siano ancora vicini a noi.

Una recente pubblicazione della neonata casa editrice Nero su bianco sembra aiutare in tale direzione grazie alla penna di Salvatore Borzì, che ha raccolto in un volume uscito proprio questo mese «la cattedra di dolore di Gerardo Sangiorgio», ovvero «il siciliano che sopravvisse ai lager nazisti e dedicò la sua vita di insegnante per testimoniare l’orrore e trasmettere i valori di libertà e fratellanza». L’opera, intitolata Internato n. 102883/IIA, si fregia peraltro di uno scritto del poeta, traduttore e critico Yves Bonnefoy e della prefazione del critico e accademico Nicolò Mineo, le cui parole rendono fin da subito tridimensionale la «nobile figura che ci viene incontro con la sua memoria e con i suoi scritti, e ci costringe a pensarlo nella sua individuale, unica e sacra, e inviolata, esistenza».

La sua storia personale di opposizione al regime si mescola, quindi, a un capitolo particolarmente sofferto nella Storia del Novecento, con puntuali testimonianze fotografiche ed epistolari che ne restituiscono la drammaticità, l’acutezza delle riflessioni e lo spessore umano. Come fa notare Erri De Luca nella quarta di copertina, peraltro, il sacrificio di Sangiorgio «è parte costituente del più bel documento politico della storia d’Italia: la sua Costituzione». In effetti, l’autore ci accompagna con mano sicura fra le strade e le righe attraversate dallo studente originario di Biancavilla, in provincia di Catania, rammentandoci che non c’è terra innocente o priva di martiri, che non c’è passato collettivo che non sia in parte anche il nostro, né data sul calendario priva di una sua qualche “memoria”.

Gerardo Sangiorgio

A una prima sezione più biografica, nel saggio ne seguono due maggiormente incentrate sulla figura del prigioniero in quanto intellettuale. A un linguaggio ora asciutto e sintetico, l’autore ne alterna ora uno più partecipe, nei momenti in cui si rivolge al protagonista in prima persona immaginandone i moti dell’animo, quasi come se stesse dialogando con un caro amico scomparso. Il registro “misto” e la forma ibrida della pubblicazione hanno il merito di evidenziarne con efficacia l’obiettivo primario, ovvero quello di «tramandare i valori autentici e di proporli con fermezza ai giovani», perché specialmente chi non c’era venga aiutato a ricostruire l’accaduto.

Dopotutto, solo ricordandoci e ricordando «cosa abbia rappresentato la dittatura fascista per l’Italia» e «cosa è una dittatura» si può sperare di scongiurare il ripresentarsi di simili parentesi storiche, forse lontane nell’immaginario collettivo dalla nostra epoca, eppure potenzialmente pronte a manifestarsi con nuovi e sconcertanti modalità in qualsiasi momento. Smettere di rievocare il passato è un reato tanto quanto lo sarebbe abbassare la guardia; allo stesso modo, considerare il Giorno della Memoria una vuota commemorazione significa cadere in un facile tranello, a causa del quale rinunceremmo al diritto di capire da dove veniamo e a spese di chi, nonché al dovere di superare le sfide umanitarie che chi ci ha preceduto non sempre ha saputo portare a termine.

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