La dolcezza di un fiore, lo spirito di un leone: la poesia leopardiana di Lauretta Li Greci

È la poesia che sceglie il poeta. È il suo spirito che affida ad alcuni eccezionali individui il compito di tramutare il magmatico fluire della sua esistenza in uno scintillante ordito di versi e rime. Non è altro che questo: una categoria dell’anima che sussurra continuamente. Un connotato genetico latente, che prende improvvisamente vita al di là della coscienza, che attraversa il tempo e lo spazio con grazia ed ostinazione. Libero da ogni catena. Immune ai deterioramenti della consuetudine, della mediocrità, dell’inerzia. Talvolta soffusa e malinconica. Altre volte ribelle e scalmanata. Ma sempre, inderogabilmente, onesta con sé stessa. Perché la poesia, da qualunque angolazione la si guardi, è sempre rivoluzionaria. È sempre la rottura di uno schema predeterminato. È sempre la storia di un connubio. Anche quando la sua realizzazione appare improbabile, o addirittura impossibile. Quando la realtà si piega alla meraviglia dell’ingegno e del sentimento. Non potrebbe essere descritta altrimenti la fugace ma straordinaria parabola esistenziale ed intellettuale della palermitana Lauretta Li Greci, esponente di quella nutrita – e ancore relativamente poco conosciuta – schiera di poetesse isolane dell’Ottocento, da Giuseppina Turrisi Colonna a Rosina Muzio Salvo, che non soltanto contravvennero con orgoglio ai canoni maschilisti della cultura del tempo, ma che pure seppero rinfocolare in maniera autentica lo spirito libertario del Risorgimento. Sarebbe, tuttavia, ancora insufficiente, questo quadro, a rendere giustizia alla singolarità della Li Greci, capace come poche di muovere un’intera comunità, quella dei suoi concittadini, a una profonda commozione. Perché lei stessa, enfant prodige capace di comporre componimenti di pregio già in età infantile, durò lo spazio di una poesia. Un po’ come quel Leopardi che tanto amò.

Si spense prestissimo, infatti, Lauretta. Aveva appena 15 anni quando nel 1849, proprio all’indomani della riconquista borbonica che aveva messo fine alle speranze sollevate dalla Rivoluzione Siciliana, la tisi, amara compagna sin dalla tenerissima età, aveva avuto la meglio. Ma tanto bastò alla sua raffinatissima sensibilità per imprimere un segno indelebile dentro e fuori i confini dell’isola. Tanto bastò a quel cuore interamente votato alla poesia, nato esso stesso dal fluire della poesia, per produrre alcuni dei versi più belli che la lirica nostrana ricordi. Spicca, tra questi, un frammento particolarmente carico di significato nonostante l’incompiutezza, intitolato, non a caso, Alla luna. A trasmetterci il testo fu la testimonianza contenuta nella silloge poetica Canti (1860) dell’editore e giornalista, nonché fondatore del Giornale di Sicilia, Girolamo Ardizzone, che della Li Greci fu caro amico (testimonianza poi recuperata e approfondita dall’interessante studio della catanese Donatella Pezzino). Furono questi i versi che Lauretta scrisse sul letto di morte, il giorno precedente alla sua scomparsa.

«O amica Luna, che agli afflitti il core
Dolcemente conforti, a te rivolgo
Le mie querele; tu pietosa almeno
A me sorridi, e quando il firmamento
De’ tuoi raggi coperto…»

Secondo Ardizzone, le forze la abbandonarono prima che riuscisse a concluderla. Ma in questo dolce saettare poetico, che ripropone il tòpos letterario della confidenza al muto e immobile astro celeste, intriso di richiami alla lirica del poeta di Recanati e a quella di Saffo (di cui Li Greci tradusse dei frammenti), rivive, si arrovella, si dibatte tutta la grandezza di una donna costretta a vivere ogni istante sotto la spada di Damocle della malattia. Divisa, trattenuta, lacerata dalla speranza della libertà, dalla bellezza del sentire e dall’ombra minacciosa della fine. Intrappolata in un corpo fallace, proprio come Leopardi che dovette dettare all’amico Antonio Ranieri i versi de La ginestra. Eppure mai doma. Struggente come una rosa che non accetta di sfiorire. Che pur nel limitare dei suoi giorni, cantava e incitava a quella libertà che non fu mai del tutto a suo appannaggio. Che soltanto la poesia, in qualche modo, seppe restituirle. «A voi mando un saluto! Oh se potessi / A voi congiunta nell’eterno Amore /, Inebbriarmi, errar di stella in stella. / Tutta goder quella suprema, immensa / Felicità, che invan si cerca in terra; / Quanto lieta sarei! ma forse ancora / Mi rimane a soffrir».

Difficile, oggi, recuperare tutto ciò che ci ha lasciato di inedito. Ma della sua bellezza e della sua profondità non vi è motivo di dubitare, se è vero che i palermitani si adoperarono con vigoria affinché un busto commemorativo di Lauretta venisse posto nella chiesa di San Domenico, il cosiddetto Pantheon degli Illustri. Basta forse soltanto questo, in fondo: il ricordo leggiadro di una donna che sopravanzò il suo tempo. Che nulla ebbe a spartire con le bassezze del mondo.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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