Sono circa le 20.30 dell’11 dicembre. È sabato sera, quando d’improvviso un boato tuona su tutta la cittadina di Ravanusa, comune di Agrigento in Sicilia, fino a rimbombare in tutta la nazione nei telegiornali e, attraverso le notifiche delle breaking news che tempestano i cellulari, raggiungono anche me. Resto sgomento. Quattro palazzine sbriciolate da una imponente esplosione innescata da una casuale scintilla per via di una probabile bolla di metano sotterranea. Almeno così dicono i primi rilievi tecnici. A guardare le immagini vengono i brividi. Intere famiglie sterminate. Dieci le vittime, compreso il piccolo Samuele che sarebbe dovuto nascere solo pochi giorni dopo la tragedia e che ha invece trovato nel luogo deputato al fiorire della vita, il grembo della mamma, la sua stessa tomba. Le immagino lì queste vite, al loro posto, e mi viene la pelle d’oca. Chi a casa dei propri genitori per un saluto o per una semplice visita. Chi tra le mura della propria casa durante la cena davanti alla televisione. Chi per una strana sorte che scampa alla tragedia perché fuori per una pizza con gli amici. Che dramma! Chi potrà consolare da un simile dolore? Questa domanda si fa largo nel mio cuore.

Durante il funerale, celebrato appena qualche giorno dopo il disastro alla presenza di ministri ed istituzioni di vario rango, campeggia il mesto spettacolo delle bare allineate a poca distanza dal luogo delle macerie. Un amico mi inoltra il video di Eliana, moglie di Giuseppe Carmina – una delle vittime del disastro – che durante il rito delle esequie pronuncia queste parole: «Voglio parlarvi della mia speranza, non del mio dolore. Non fermiamoci al fatto materiale». Da dove è sbucata fuori Eliana? Come può parlare veramente di speranza di fronte ad un così grande e misterioso dolore che ha investito la sua stessa vita? I fatti, come dice bene Eliana, sono contingenze più che materiali che ci invitano ad un cammino di conoscenza fino al significato ultimo. Le cose hanno un’apparenza, una forma con dentro un profondo senso misterioso. Anche la morte non può che essere un velo di apparenza – così almeno mi induce a credere la mia ragione ribelle. Di fronte al mistero del dolore e della morte siamo tutti decisamente inadeguati. La morte, con il dolore che trascina con sé, è troppo complessa per essere affrontata e compresa con le nostre misere forze. 

Durante le esequie – quasi a voler lanciare un appello che ho sentito indirizzato a me – con tono addolorato ma lieto Eliana ha proseguito il suo discorso, pronunciando parole enormi che ancora ora tolgono il fiato a chi ha la pazienza di ascoltarle: «Guardiamo alle cose che durano per sempre. In un attimo tutto è andato via. Giuseppe era il mio tutto. Ma è arrivata una forza sovrumana, una serenità interiore che solo Dio può dare». Siamo spiazzati e incapaci di fronte alla morte perché lo siamo davanti alla vita. Ci danniamo a fare progetti e piani, a disegnare strategie salvo poi vedere evaporare e finire tutto a causa di un’esplosione o anche per molto meno. Che senso ha il prima se non c’è un dopo? Che senso ha l’istante presente se non c’è un destino futuro di bene? Da qui forse l’invito della donna a cercare e guardare le cose che durano per sempre. C’è qui e ora su questa terra qualcosa che duri per sempre?

Se poso lo sguardo su quelle macerie mi assale lo sconforto. Poi vedo Eliana e la ascolto commosso in silenzio. Osservando il suo sguardo, si arguisce che Eliana deve aver incontrato nella sua vita qualcosa o qualcuno più forte della morte. Nel suo dire si scorge come la luce di un’alba nuova. E così, non nascondendo l’incommensurabile dolore di una ferita così profonda, le sento ancora dire: «La casa è vuota, le nostre bambine chiedono e piangono, il letto è diventato grande. La croce è pesante. I miei suoceri per me erano altri genitori. Ma non maledico Dio, continuo a ringraziarlo, perché ho la certezza che Giuseppe e i miei suoceri sono in un posto migliore. Siamo nati e non moriremo mai. Per tutti noi questa sia una certezza. Il mio Peppe non è in quella bara, lui vivrà per sempre. Oggi faceva il compleanno, oggi è nato in Cristo». Nella vibrazione di queste parole avverto che il bene che il cuore brama è già presente, che la vita ferita di una donna può rinascere perfino tra le macerie. Mi vengono in mente altre parole, quelle che la scrittrice Susanna Tamaro mette in bocca ad Edith, protagonista del suo ultimo romanzo intitolato Una grande storia d’amore. Proprio nell’epilogo della vicenda, la protagonista del libro, dopo il lungo e doloroso cammino umano che dovrà attraversare, scriverà: “Ora ho capito che c’è un Bene che ci sovrasta, un Bene che prima ci genera nella nascita e poi, in modo misterioso e diverso, ci rigenera nella morte.” «Siamo nati e non moriremo mai più», come ben ci ricorda Eliana riprendendo Chiara Corbella Petrillo. Questo è davvero l’annuncio e la profezia del Natale che ogni uomo, ad ogni latitudine, attende anche senza saperlo e che oggi ci raggiunge potentemente attraverso la testimonianza di Eliana, carica di uno sguardo ferito dalla croce ma in pace, perché afferrato nelle viscere dalla certezza che la vita ha un destino buono. Il divino si è fatto carne incontrabile e sperimentabile qui ed ora e lo fa scegliendo un popolo, quello di cui anche Eliana fa parte, perché attraverso esso si renda visibile un segno dell’eterno nella storia. Tanto da farci dire con stupore e fiducia, con gli occhi rivolti ad Eliana: “O morte, dov’è la tua vittoria?”

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