Rappresentano oramai la modalità globale, pervasiva e appassionante attraverso cui la contemporaneità racconta sé stessa a tal punto che in tanti si chiedono se abbiano già sostituito il romanzo come strumento di espressione dell’umano. Sono le serie TV. Da Euphoria a True Detective, da Westworld a Vikings, le series danno forma a un immaginario collettivo nel quale un pubblico sempre più vasto di giovani e giovanissimi, ma non solo, sembra immedesimarsi o vedersi rappresentato. Filippo De Bortoli, giornalista e appassionato di serie, è stato uno degli ideatori della mostra Una domanda che brucia, che ha suscitato grande interesse al Meeting di Rimini, animando un dibattito tra generazioni a cui non si assisteva da tempo. 

De Bortoli: «Da Ragnar Lothbrock di Vikings a Dorothy di Westworld ricorre la domanda “Chi sono io?”»

Viste spesso con sospetto dagli adulti, le serie TV meritano uno sguardo meno ingombrato da pregiudizi. Non a caso De Bortoli ricorre alla categoria di “incontro” per descriverne la novità e la portata. Innanzitutto quello dello spettatore con i personaggi, ai quali la struttura temporale estesa, tipica delle serie TV, permette di svilupparsi dal punto di vista psicologico e umano. Fino a ritrovarne il filo rosso: «Ciò che lega personaggi diversissimi come la figura leggendaria di Ragnar Lothbrok (la cui ansia di infinito si esprime inizialmente nella conquista di terre lontane e che, nel tempo, cede il passo alla scoperta di un’amicizia nella quale quel desiderio già si appagava e della quale ha struggente nostalgia) all’androgina Dorothy di Westworld (più umana degli umani, in cui rivivono la capacità di perdono e il desiderio di vita dei Nexus-6 di Blade Runner) è l’esplodere della stessa domanda: “Chi sono io?”. Questo interrogativo è ineludibile. Anche se lo si cerca di nascondere. Come accade alle giovanissime protagoniste di Euphoria, Rue e Jules, nella cui esistenza devastata, incredibilmente, continua ad ardere, inestinguibile, il desiderio di trovare sé stesse».

«Nessun altro linguaggio possiede la flessibilità, la trasversalità e la suggestività delle serie TV»

La luce accesa da questa domanda brilla, però, solo per un breve istante. Sebbene reale, sembra essere destinata a spegnersi, soffocata da un nichilismo buio e asfissiante che permea lo spazio in cui molti personaggi si muovono e respirano. «È vero – ammette – ma nelle situazioni più varie e più difficili, nella vita come sullo schermo, ci sono delle scintille, delle crepe dove la luce inizia a passare». Sono momenti di umanità «insospettabili, imprevisti, commoventi, che aprono un tempo ricco di nuove possibilità». La modalità espressiva delle series amplifica tali possibilità. «Le serie sono il luogo di comunicazione per eccellenza del nostro tempo. Nessun altro linguaggio ne possiede la flessibilità, l’estensione, la trasversalità e la suggestività. Non i social, non la musica».

Cosa ammalia delle serie TV, al punto che gli stessi show runner che curano la coerenza dello sviluppo dei personaggi, si sorprendono delle “reazioni” dei loro protagonisti? «È il fatto di restare attaccati alla realtà. Anche se creano prodotti di intrattenimento, e quindi fatti per essere venduti, autori e produttori rimangono legati alla realtà. E la realtà è sempre luogo di stupore. E il pubblico se ne accorge».

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