Impegnata da vent’anni nelle più calde zone di guerra del pianeta, la fotografa croata visita spesso le scuole italiane, portando ai ragazzi la sua esperienza delle tragedie di cui è stata testimone

«Studiare molto. Non si può improvvisare quando ti trovi in posti difficili, perciò occorre studiare bene la storia e la geografia del paese in cui si vuole andare, la politica, i personaggi, le relazioni, la cultura». A parlare è la fotogiornalista di guerra Andreja Restek, di origine croata, che vive a Torino, ha collaborato con diversi giornali e aziende italiane ed estere. Ha un’esperienza di oltre 20 anni nei Paesi del terzo mondo, soprattutto in zone di conflitto come Siria, Ucraina, Crimea, Libano, Russia, Balcani, Africa, seguendo le guerre, le rotte dei rifugiati, i Paesi colpiti delle carestie e le conseguenze che hanno sulla popolazione. Ha fondato e tutt’ora dirige il quotidiano online APR news.

La Restek, che visita spesso le scuole italiane commentando i suoi scatti, aiuta i giovani a cambiare ad allargare la mente sui gravi conflitti che minano il mondo. Ultimamente ha dichiarato che: «Pensiamo, sbagliando, che le guerre capitino sempre altrove e invece non è così. Io avevo poco più di 20 anni quando è scoppiata a casa mia, nei Balcani e ancora faccio fatica a parlarne, è come se sentissi che non è finita». Ad una domanda di una giovane studentessa se le sia mai successo di rinunciare nel suo lavoro a uno scatto fotografico, Andreja, commuovendosi, ha risposto: «Sì, prima viene il rispetto. Abbiamo il dovere di essere innanzitutto onesti, non di vincere il World Press. A me è successo dopo un bombardamento ad Aleppo, in Siria. In quella devastazione erano rimaste solo due bambine. Si aggiravano perse, con un sacchetto di plastica in mano. Ho fatto una foto, ma poi mi sono fermata. Ci siamo abbracciate per dieci minuti. Non ci è dovuto niente, né storia, né foto, né niente. Questo è l’ultimo bene che loro ci danno e noi dobbiamo essere proprio rispettosi, anche nei confronti di coloro che leggono e guardano le foto. Se no facciamo un altro mestiere. Una cosa molto grave del nostro giornalismo è che, a volte, si è poco seri».

Il suo è un viaggio a braccetto con la morte e Andreja ne è ben consapevole. Come quella volta che è dovuta fuggire in Turchia per evitare un rastrellamento ad opera dei mujaheddin. La paura accompagna costantemente le sue avventure, ma è una compagna fedele «perché ti suggerisce il limite da non superare. Se un giorno non avessi più paura – confessa – spero avrò il buon senso di smettere di fare questo lavoro».  Fare la fotoreporter significa testimoniare una devastazione e una cattiveria che non risparmia nessuno: «All’inizio mi stupivo che i bambini feriti non piangessero. E invece hanno una forza interiore che impedisce loro di disperarsi. In molti casi non hanno più nulla. Anche se sono lì per raccontare, mi auguro sempre che il destino abbia scritto per loro un futuro diverso in grado di proteggerli da rapimenti o vendite».

La foto presentata, particolarmente forte, dimostra come purtroppo la guerra rende normali atteggiamenti altrimenti raccapriccianti come quello di una bambina di 5 anni, figlia di un medico, che trascorreva le sue giornate in Siria, ad Aleppo, a irrorare d’acqua, con uno spruzzino per innaffiare le piante, le macchie di sangue lasciate dai pazienti sul pavimento d’ingresso dell’ospedale. La bimba fa il possibile per pulire, c’è molto sangue a terra e pare che già è abituata a farlo. Tutt’attorno è malandato. Sicuramente è costretta a stare in ospedale con il padre e nel mentre fa quello che sa fare, giocare e così passa la sua giornata.

«Ai giovani, a scuola racconto storie vere – afferma ancora Andreja – affinché non venga mai dimenticato quello che ci è successo. La memoria è così breve. Dimentichiamo per difenderci, vogliamo cancellare le cose brutte. Noi croati, così come gli amici in Serbia, vogliamo dimenticare la guerra di 20 anni fa. Ma purtroppo sono cose che non si dimenticano mai. I miei scatti non sono perfetti, ma in guerra non c’è tempo per curare la posa, si immortala una sparatoria, un ferito steso su una barella di fortuna, un cecchino, una bambina che non trova più la mamma.

Credo che gli italiani devono conoscere, non possono accontentarsi solo del Grande Fratello e dei programmi di Maria De Filippi. Io giro le scuole per descrivere quello che succede nei teatri di guerra laddove Dio ha perfino finito le lacrime».

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