Capita, a volte, che destini apparentemente lontani si ritrovino provvidenzialmente intrecciati. Che genialità di incommensurabile grandezza, per quanto differenti nel loro manifestarsi, uniscano più o meno consapevolmente le forze per dare vita a stralci di divina bellezza. Accade alla poesia quando viene intonata in musica, alla letteratura quando la sua immortalità viene duplicata in un prodotto figurativo, alla fotografia quando la sua magnetica stasi innesca il dinamismo cinematografico. Eterne ed inesauribili ricombinazioni che da sempre animano le ispirazioni dei grandi cuori, muovendoli, a loro volta, ad un irrefrenabile istinto di emulazione. Quanti inaspettati binomi, d’altra parte, frutto di estemporaneità o di sistematicità, potrebbero ben esemplificare questa straordinaria dinamica? Pensiamo alla scrittura cubista di Gertrude Stein, influenzata dalla frequentazione con Picasso, che di lei realizzò anche un iconico ritratto; o, ancora, alle suggestioni che le opere di Balzac suscitarono in Cèzanne; oppure alla meravigliosa reinterpretazione che De André fece dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Tra queste affascinanti accoppiate, con la vulcanica Parigi dell’800 sullo sfondo, si staglia anche la meravigliosa amicizia tra il nostro Vincenzo Bellini e l’eccelso romanziere Alexandre Dumas, noto autore, tra le altre, de I tre moschettieri. I due, infatti, condivisero a lungo la presenza nei salotti più esclusivi della capitale transalpina, nei quali, naturalmente, oltre ai sinceri rapporti personali, crescevano di pari passo idee innovative, consigli di poetica, sentiti bilanci di un’epoca irripetibile. Proprio da una di queste chiacchierate nacque l’idea per uno dei capolavori di Dumas. Ma anche per una dedica indimenticabile.

Nel 1832 lo scrittore francese si ammalò di colera. Com’era consuetudine all’epoca, pensò che il trasferimento in una località dal clima maggiormente salubre potesse rappresentare il rimedio ideale contro la malattia. Fu allora che Bellini gli diede una dritta che a posteriori si sarebbe rivelata illuminante: fare tappa in Sicilia e visitare il villaggio di Bauso nel messinese – oggi non più esistente e ribattezzato, in seguito alla fusione con i comuni limitrofi di Saponara Villafranca e Calvaruso, Villafranca Tirrena – per apprendere informazioni sulla leggendaria figura del bandito Pasquale Bruno. La proposta dovette intrigare non poco la già fervida fantasia di Dumas: non soltanto perché gli avrebbe consentito di approdare nella splendida Sicilia che tanti intellettuali e nobili signori continuavano a selezionare come meta prediletta per i loro Grand Tour (e che effettivamente lasciò un segno profondo nella sua anima, tanto da spingerlo a scrivere un resoconto dal titolo Viaggio in Sicilia), ma anche perché avrebbe potuto nutrire “sul campo” la sua sterminata passione per il genere storico-eroico che tanta fama gli avrebbe garantito nei decenni successivi. E all’ombra dell’imponente castello che sormontava Bauso Dumas si imbatté per davvero in una vicenda dai contorni eccezionali, che al suo ritorno si tramutò nell’opera Pascal Bruno (1838). Tra le stradine siciliane si raccontava, infatti, che appena una trentina d’anni addietro rispetto al suo viaggio, il villaggio fosse retto dalla crudele tirannia del principe di Castelnuovo. Quest’ultimo, avendo potere di vita e di morte sulle sorti dei propri sottoposti, spadroneggiava senza pietà sulle donne che gli capitavano a tiro. Tra queste, la madre di Pasquale, violentata nonostante i continui rifiuti opposti alle sue inopportune avances. Suo padre Antonio, nel tentativo di vendicare l’onore della moglie, venne ucciso e la sua testa fu appesa sulle mura del castello.

Il castello di Bauso

La famiglia di Pasquale si trasferì così nei pressi di Barcellona Pozzo di Gotto, ma la sorte volle che la loro strada incrociasse nuovamente quella del perfido principe: a Pasquale, invaghitosi della giovane Teresa, cameriera presso la tenuta del regnante, per via dei tumultuosi trascorsi, fu impedito di coronare il proprio sogno d’amore e Teresa andò in sposa ad un altro servo. Da quel momento Pasquale divenne un paladino-bandito, votato alla guerriglia contro le guardie del principe. La sua parabola fu irresistibile, le sue movenze sfuggenti e imprevedibili, la sua sete di giustizia implacabile. Nemmeno un poderoso assedio alla masseria di sua proprietà diede i risultati sperati. La consorte del principe, per stanarlo, dovette ricorrere allora ad un deplorevole espediente: minacciò di dare alle fiamme l’intero villaggio di Bauso se Pasquale non si fosse consegnato. L’amore per i suoi concittadini fu così forte da farlo desistere. Il nostro protagonista trovò la morte. Ma, anche e soprattutto per merito della splendida narrazione di Dumas, una gloria imperitura come simbolo di rivalsa contro i prepotenti.

Così Bellini, quasi senza volerlo, divenne co-autore di questa meravigliosa epopea. Dumas, che da quel momento iniziò la sua ascesa a più grande narratore di Francia, gli fu immensamente riconoscente. Come testimonia l’elogio tessuto al Cigno proprio nell’incipit di Pascal Bruno: «Bellini era di Catania. La prima cosa che i suoi occhi, aprendosi, avevano visto, erano state le onde che, dopo aver bagnato le mura di Atene, vengono a spegnersi melodiosamente sulle rive di un’altra Grecia; e l’Etna favolosa e antica, sui cui fianchi vivono ancora, dopo diciotto secoli, la mitologia di Ovidio e i racconti di Virgilio. Ecco perché l’indole di Bellini era tra le più poetiche che si potessero incontrare; e il suo genio, che bisogna apprezzare con il sentimento e non giudicare con la ragione, un canto eterno, dolce e malinconico come un ricordo; un’eco simile a quella che se ne sta assopita nei boschi e sulle montagne, e che sussurra appena fino a quando il grido delle passioni e del dolore non venga a svegliarla. Bellini era l’uomo che faceva al caso mio. Aveva lasciato la Sicilia ancora giovane, e dell’isola nativa gli era rimasta una memoria crescente, dentro la quale custodiva religiosamente, lontano dai luoghi in cui era cresciuto, i ricordi poetici dell’infanzia».

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