Il maestoso manifestarsi della natura accende, nell’animo di ogni uomo che abbia l’occasione di assistervi in ogni sua forma, un misto travolgente di ammirazione e terrore. È un promemoria delle nostre fragilità, della nostra ineludibile precarietà, ma al tempo stesso un ruggito che scuote e tramortisce la nostra apatica indifferenza, l’epifania di un’eredità che ha per matrice il capriccio e la vanità degli dèi. Quale grande evento naturalistico, se non un’eruzione vulcanica, può meglio incarnare la potenza immaginifica del creato? E quale popolo, più dei siciliani, ha convissuto fin dai suoi primi, ancestrali vagiti con queste forze dirompenti e a tratti ancora misteriose? In questi giorni di fontane di lava spettacolari e scenografiche, di nuvoloni densi e chilometrici accompagnati da lapilli e cascate di cenere d’altri tempi, l’unicità della condizione siciliana è emersa, una volta di più, in tutta la sua incommensurabile meraviglia. E proprio ad un racconto che ha per protagoniste le divinità olimpiche sarà andata la memoria di qualche isolano intento a gustarsi le prodezze del Mongibello: la furiosa battaglia tra Zeus e il gigante Tifeo. Una leggenda fondativa della nostra terra, ricca non soltanto di spunti didascalici e simbolici, ma tuttora egregiamente descrittiva della natura dei siciliani.

Nato, secondo una delle versioni mitologiche più accreditate, da Crono, si narra che il mostro dalle sembianze gigantesche venne affidato alle cure di Era, mossa a pietà dalle suppliche di Gea che presso di lei aveva pianto la scomparsa dei Titani ad opera di Zeus, affinché, una volta divenuto abbastanza potente, potesse finalmente spodestare il Padre degli dèi. Furono due, ugualmente cruente, le battaglie che li videro scontrarsi: nella prima ad avere la meglio fu proprio Tifeo, grazie ad uno stratagemma che gli permise di sottrarre al re delle divinità la falce con la quale aveva condotto lo scontro, ferendolo gravemente ai tendini delle gambe, che furono sparsi per la Terra. Il secondo e decisivo confronto ebbe luogo sulle sponde della nostra cara isola: raggiunto velocemente dal carro alato di Zeus, per tentare un’ultima, disperata difesa il gigante sollevò l’intera Trinacria per scagliarla sul suo avversario. Tuttavia, non fece in tempo: il fulmine del Padre dell’Olimpo lo raggiunse prima del lancio e lo ferì gravemente. Ormai privo di forze, Tifeo cadde sotto il peso della Sicilia, rimanendone eternamente prigioniero. Suggestivo il racconto che Esiodo include nella sua Teogonia: «E quello, poi che fu domato, spezzato dai colpi, piombò giù mutilato, diede gemiti lunghi la Terra. Ed una vampa sprizzò dal dio folgorato percosso nelle selvose convalli dell’Etna tutto aspro di rupi. E lungo tratto ardea per quel fiato divino la terra dall’ampio dorso, e al pari si liquefaceva di stagno quando lo scaldano dentro nei cavi crogiòli i garzoni. Così la terra al vampo del fuoco si liquefaceva». Ripreso poi, con verve figurativa ancora maggiore, nel V libro delle Metamorfosi di Ovidio: «Sopra la sua mano destra sta Peloro, vicino all’Ausonia, sopra la sinistra tu, Pachino; Lilibeo gli preme le gambe, sopra il capo gli grava l’Etna; e Tifeo riverso sul fondo dalla bocca inferocito erutta lava e vomita fiamme. Spesso si sforza di rimuovere la crosta che l’opprime e di scrollarsi di dosso città e montagne: allora trema la terra e persino il re dei morti teme che il suolo si squarci, che una voragine ne riveli i segreti e che la luce irrompendo semini tra le ombre terrore e caos». Un ribelle dall’animo selvaggio: nella storia e nella figura di Tifeo, in fondo, si nascondono quelle di un intero popolo.

Una rappresentazione di Tifeo

Un popolo che, come il suo venerato vulcano, è dotato di una prorompente forza vitale, di un istinto di sopravvivenza innato che lo spinge a dimenarsi tra le strettoie della storia e della vita, di una determinazione regale e calorosa come un fiume di lava che scioglie le catene di ogni sottomissione. Per questo, pur nella comprensibile apprensione che i suoi impeti generano, osservare i fremiti dell’Etna equivale a specchiarci nel nostro animo: vi scorgiamo pene e crepe secolari, e contestualmente il coronamento di un inno alla rinascita. Vi scorgiamo, insomma, l’agitarsi della vita: e la preziosa consapevolezza di farne intimamente parte fintanto che da lei, come Tifeo in cerca della libertà, saremo scossi.

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