Sebbene lo conoscessi per fama da tempo, ho avuto la fortuna di incontrare Nino Milazzo di persona per la prima volta solamente nel 2014. Mi trovavo presso un liceo di Catania dove era intervenuto in qualità di presidente del Teatro Stabile. Gli chiesi una battuta per un articolo che stavo scrivendo per il quotidiano “La Sicilia”, lo stesso che molti anni prima lo aveva visto rientrare da via Solferino per assumere la carica di condirettore. Fu molto disponibile e mi domandò come mi chiamassi. Con mia grandissima sorpresa scoprii non solo che la mia firma non gli era nuova, ma anche che aveva letto molti miei articoli. Si complimentò e mi diede qualche consiglio per migliorare.

Il direttore, come veniva ancora chiamato per rispetto dalla maggior parte dei colleghi, era una persona schiva e riservata, dallo sguardo malinconico, ma estremamente appassionata al suo lavoro e per nulla arroccata sull’Olimpo dove giustamente era stato collocato, non solo per aver ricoperto la carica di vicedirettore del Corriere o per la sua stretta collaborazione con Enzo Biagi, ma anche perché i suoi pezzi, accorati e appassionanti quanto rigorosi e verificati, rappresentano ancora oggi dei veri capisaldi del buon giornalismo: da leggere e rileggere con estrema attenzione.

Testimonianza di tutto ciò si ritrova nel volume “Il mio Novecento. Memorie dal Secolo Breve”, pubblicato nel 2017 dalla Domenico Sanfilippo Editore. A firmare l’introduzione del volume è stato Ferruccio De Bortoli, il quale aveva lavorato a stretto contatto con il giornalista di Biancavilla nei suoi anni milanesi. Quando lo intervistai, in occasione di una prossima presentazione del volume cui partecipò a Catania, mi spiegò come «la lezione di Nino Milazzo ci insegna che non bisogna mai essere convinti di possedere la verità poiché non si è mai sufficientemente esperti, nemmeno quando si tratta uno specifico argomento da molti anni. Il suo approccio è stato quello di un giornalista scrupoloso e per certi versi anglosassone, che si è innestato perfettamente nella tradizione migliore del Corriere della Sera». Parole che, nell’epoca delle fake news e del giornalismo spazzatura, assumono un peso non indifferente.

Nino Milazzo fu un grande conoscitore del proprio tempo, che seppe leggere in maniera prospettica. «Quando il mondo – spiega ancora De Bortoli – era diviso severamente da una cortina di ferro, con un blocco comunista che pensavamo assolutamente indistruttibile, lui seppe cogliere, con grande preveggenza, i segni di decomposizione del sistema, intuendo che questo non avrebbe resistito al cambiamento dell’economia, della tecnologia e della scienza e in qualche modo sarebbe dovuto cadere, anche se forse non clamorosamente come accadde nel 1989».

Leggere il presente per interpretare il domani, quindi, ma non solo. La “lezione” di Nino Milazzo è stata anche quella di un uomo che credeva nel futuro e in chi lo avrebbe disegnato. «Come si fa – spiegò a quella classe di liceali nel 2014 – a chiamare “sdraiati” giovani che vincono il Nobel a 17 anni come Malala, gli “indignados” di Madrid, i ragazzi di Tienanmen, le bandiere di Hong Kong? Non saranno sdraiati invece i Fondi Monetari e le regge comuniste della Corea del Nord?».

Nino Milazzo ci ha lasciato all’età di 91 anni, provato nel fisico, ma lucido fino alla fine. Sono convinto che la sua eredità – intesa come quella di un giornalismo nuovamente autorevole, intriso di spirito di servizio e incentrato sulla verifica delle fonti – non andrà dispersa, ma la sua esperienza sarà da sprone per le nuove generazioni. Probabilmente “il giornalismo che verrà” non sarà scritto a macchina nelle stanze storiche della redazione di un giornale, magari utilizzerà nuove forme, ma avrà sempre senso di esistere se ci aiuterà a comprendere il mondo, se sarà basato sui fatti e se non piegherà mai la realtà alle proprie opinioni. In altre parole, se saprà fare tesoro di lezioni di grandi giornalisti come Nino Milazzo, cui non smetteremo di dire grazie.

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