In che modo coinvolgere in modo attivo i giovani nella fruizione dei beni culturali? Una considerazione sui risultati dell’inchiesta Generazione 18″

Leggendo il Report “Generazione 18” non ho potuto ignorare che la domanda sulla possibilità di affidare la gestione del patrimonio culturale ad organizzazioni di giovani abbia ottenuto un ampio consenso tra gli intervistati, connessa al tema del restare in Sicilia una volta diventati “adulti”, o meno. Questo dato, insieme al titolo dell’editoriale “Ascoltare i giovani” di Giuseppe Di Fazio e Giorgio Romeo mi ha fatto quindi ricordare un episodio, da cui vorrei partire.

«Ma davvero mi volete far credere che darete ascolto ad una ragazzina di 16 anni?»: con questa caustica domanda, rivolta agli esperti del progetto di alternanza scuola lavoro “Rifugio Boggio Lera”, Martina, studentessa liceale, sintetizzava efficacemente un sentimento molto diffuso tra i circa sessanta ragazzi coinvolti nella progettazione culturale del recupero di uno spazio abbandonato interno al liceo scientifico catanese. Sfiducia verso gli adulti, incredulità nei confronti di un metodo che tentava invece di essere inclusivo e partecipativo, rassegnazione ad essere ignorati o classificati sbrigativamente come disinteressati, svogliati, apatici. Martina aveva assolutamente ragione a non fidarsi, perché a dire il vero le istituzioni culturali italiane (pubbliche e private, grandi o piccole) hanno ampiamente dimostrato negli ultimi decenni un grande disinteresse (loro sì!) verso gli adolescenti, limitandosi nella maggior parte dei casi ad applicare quel “modello del deficit” tipico di chi, incapace di porsi le giuste domande sui bisogni e sui comportamenti sociali di questo segmento di popolazione, ha spesso messo in campo tutto sommato sbrigativi metodi educativi. Metodi per lo più basati sul trasferimento di imponenti quantità di informazioni con l’obbligo di “digerirle” gioco forza oppure, nel migliore dei casi, trasformate e ridotte adottando un atteggiamento da “divulgatori forti”, basato su una semplificazione dei contenuti che presupponesse una scontata superficialità o ignoranza del destinatario.

ALLARME POVERTÀ EDUCATIVA. Quando Save the Children ci restituisce lo sconfortante quadro della povertà educativa in Italia (con la Sicilia in testa alla classifica, 1 minore su 3), fenomeno che si accompagna integrandola alla povertà (relativa o assoluta) delle famiglie di appartenenza, ci chiediamo quali siano le cause della elevata esclusione dalla partecipazione culturale (fino all’80%) dei nostri minori, adolescenti in testa. E non basta la gratuità o le agevolazioni tariffarie di ingresso ai luoghi della cultura o i bonus, se a queste leve economiche non si accompagna una adeguata strategia di mediazione culturale e di engagement attentamente pianificato. Perché quello di cui hanno bisogno i nostri ragazzi non è né un bolo massiccio di conoscenze rigurgitato dagli adulti con la spocchiosità che ci contraddistingue, né meno che mai comodi adattamenti linguistici e riduzioni contenutistiche, che immaginano gli adolescenti come un “volgo” a cui di-vulgare cose difficili ammantandole di semplicità, quasi un buon selvaggio a cui parlare con i verbi all’infinito.

MEDIAZIONE, RELAZIONI, COINVOLGIMENTO. Come ci ricordano Alessandro Bollo e Alessandra Gariboldi già dal 2008, i nostri ragazzi hanno bisogno di tre cose (più due), da parte delle organizzazioni culturali. La prima: mediazione. I luoghi della cultura non possono essere solo spazi in cui fare incontrare e conoscere gli oggetti culturali (opere, manufatti, reperti, composizioni, coreografie, libri, documenti) come fini ultimi dell’azione degli adulti, ma quelli (gli oggetti) devono essere strumenti per riflettere sul passato, sul presente e perché no, sul futuro. La seconda: relazioni. Una caratteristica dell’età adolescente è il bisogno di interagire con i propri coetanei, socializzare e collaborare: i luoghi della cultura devono essere facilitatori di queste relazioni, luoghi sicuri dove attivarle. La terza: coinvolgimento. I ragazzi non vogliono solo assistere inerti a lezioni e visite guidate, ma vogliono partecipare, contribuire a creare senso, prendersi cura di luoghi e oggetti significativi, dire la loro. Questi tre approcci possono rimettere in discussione il rapporto tra luoghi della cultura e giovani, aumentando l’efficacia civica ed educativa dei primi, e l’opportunità che i secondi gli riconoscano rilevanza. In ultimo, ma forse più importanti e cornici dei primi tre, i ragazzi hanno bisogno di ascolto: non è vero che non hanno molto da dire, e non è neanche vero che se si esprimono sono banali. Al contrario, hanno spesso un approccio con le cose molto più lucido degli invischiati adulti, e ascoltarli può gettare una nuova luce a progetti, documenti, interpretazioni. Solo che, come ci ricordava Martina, non sono abituati ad essere ascoltati. E hanno bisogno di tempo: progetti sbrigativi e corti non offrono l’adeguata durata per sedimentare gli effetti dei metodi appena menzionati.

Ragazzi del liceo Boggio Lera fanno un selfie davanti al rifugio con una anziana signora che vi si era rifugiata da giovane

IL PROGETTO AL LICEO BOGGIO LERA. Con questo approccio Officine Culturali, il Comitato Antico Corso ed il Centro Speleologico Etneo hanno costruito insieme al Liceo Scientifico E. Boggio Lera il progetto di alternanza scuola lavoro basato innanzitutto sull’ascolto di tre classi. Gli operatori hanno messo a disposizione dei ragazzi le proprie competenze ma hanno chiarito che il disegno del futuro utilizzo museale del Rifugio Antiaereo abbandonato sarebbe stato tracciato e definito insieme a loro. Un disegno che nell’arco di tre anni ha preso forma diventando un progetto, addirittura finalista con altri 14 su 429 proposte per il bando Culturability (fondazione Unipolis), e invitato a raccontarsi quale buona pratica alla Commissione Cultura della Camera dei Deputati, nonché uno dei progetti individuati dal Mibact nel suo “Portolano” su alternanza scuola lavoro e luoghi della cultura.

ALTERNANZA SCUOLA-CITTADINANZA. I ragazzi a seguito del progetto diventeranno operatori culturali? Non ha importanza: è importante che il loro approccio con i luoghi e gli oggetti della cultura sia stato inclusivo e partecipativo, occasione per riflettere su temi come le guerre, la città, il quartiere, la memoria, la progettazione, la sostenibilità, l’intraprendere per il futuro. Hanno partecipato, hanno ora strumenti di comprensione e di consapevolezza che prima non avevano, hanno partecipato a rendere probabile la riattivazione di un luogo abbandonato conferendogli nuovo senso, hanno collaborato tra di loro per tre anni; sono stati ascoltati, e ci hanno insegnato molto, sovvertendo il “modello del deficit”. Sono più “cittadini attivi” di quando siamo partiti, e questo fa del loro percorso un progetto di alternanza scuola cittadinanza, piuttosto. E quando saranno medici, operai specializzati, impiegati di banca o panificatori, si ricorderanno forse che un museo, un archivio o una biblioteca non sono solo posti noiosi e abitati da saccenti adulti, ma luoghi vivi, pieni di stimoli e di idee, dove costruire insieme e fare comunità. E magari ci torneranno allegri, e con i loro figli. 


Francesco Mannino

Francesco Mannino (Catania, 1973), dottore di ricerca in storia urbana, vive a Catania dove lavora con lo staff di Officine Culturali, l’associazione di cui è co-fondatore, presidente e project manager. Officine Culturali si occupa tra l’altro delle attività di fruizione del Monastero dei Benedettini, immenso complesso pluri-architettonico, un po’ tardo-barocco un po’ contemporaneo: l’edificio, sede universitaria e spazio pubblico tra i più permeabili della città, funge anche da grande laboratorio dell’associazione. Qui e in altri luoghi si sperimentano processi per fare del patrimonio culturale un bene comune e uno spazio accessibile di cittadinanza. Dentro Officine ha portato la propria formazione dei master in storia e analisi del territorio (UniCT), in management dell’arte e dei beni culturali (Sole 24 ORE) e di ADESTE (Audience Developer: Skills and Training in Europe, Fon. Fitzcarraldo), nonché un bagaglio umano e sociale in gran parte proveniente dall’Antico Corso, lo spazio urbano che ospita il Monastero. Dal 2016 collabora stabilmente con Il Giornale delle Fondazioni.

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