«Un artista parla solo delle cose che conosce, delle cose che sa, delle cose con le quali ha vissuto una comunione profonda da sempre, da quando non era neppure cosciente. Quindi il mio legame con la Sicilia è così profondo che viene fuori». Ebbe a dire così, una volta, Renato Guttuso a proposito di quanto l’essere siciliano abbia inciso sul suo modo di vedere – e di fare – l’arte. Inevitabile, verrebbe da pensare, considerando che lo stesso Guttuso dichiarò a più riprese di avere sempre in mente la Sicilia ogniqualvolta prendeva in mano un pennello. Una delle testimonianze più eloquenti, in questo senso, è il dipinto La Zolfara, che il palermitano realizzò nel 1953, un vero e proprio fotogramma di autentica Sicilia: non solo per la presenza di un ambiente tipicamente isolano come la miniera di zolfo, ma anche per i significati nascosti che si annidano dietro quel luogo-simbolo.

La zolfara, dunque, cava dalle fattezze oscure e invivibili, presenza ingombrante nell’immaginario letterario siciliano: simile a quella di rena rossa che inghiottì il Rosso Malpelo di Verga o ad un’altra miniera di zolfo, quella dove faticavano il nonno e il padre di Sciascia. Gli angusti cunicoli sembrano quasi la realizzazione materiale della vita dei siciliani, storicamente abituati a percorrere sentieri tortuosi e inaccessibili, mentre qualcuno approfitta del loro lavoro sporco per godersi, in tranquillità, la luce del sole. In questo sprofondare negli abissi dell’anima, però, il siciliano sa prendersi gioco di chi sta al sicuro al caldo, sprigionando la luce che risiede in se stesso. È questo il messaggio delle pennellate di Guttuso, tra le quali spiccano quelle dai tratti verdi e giallo accese, che fanno da contraltare ai corpi scheletrici fiaccati dalla stanchezza e dagli odori malsani. Ma la volontà di quei lavoratori, espressione di un’intera attitudine siciliana, in mezzo a questo gioco di luci sfavillanti che combattono il buio sotterraneo, sopravvive più che mai.

Renato Guttuso

Il pregio del pittore originario di Bagheria, al pari dei grandi letterati suoi conterranei, è stato quello di aver reso arte la vita di tutti i giorni, di aver scorto l’universale dietro le pratiche quotidiane, di aver saputo replicare, con l’intensità del colore, perfino la magia della stradina più sperduta. Nel quadro in questione, Guttuso sembra voler comunicare l’unicità di un modo di essere che rifiuta di arrendersi anche di fronte a situazioni disperate, che è capace di trovare il filo di Arianna anche nelle irrespirabili profondità intrise di zolfo. Cosa c’è, in fondo, di più siciliano che confrontarsi col peggio di ciò che la realtà può offrire e uscirne a testa alta grazie al proprio ingegno e alle proprie abilità? La Zolfara, perciò, è il quadro in cui Guttuso si fa portavoce di un’intera civiltà isolana, di un’intera storia fatta di individui nudi di fronte al pericolo ma portatori di una convinzione incrollabile: che il tempo tra le tenebre è destinato a finire, che i cunicoli hanno sempre una via d’uscita, per quanto lontana. Che prima o poi, dopo aver portato a lungo la fiaccola della speranza, si riuscirà a riveder le stelle.

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