Nel 2018 il gambling non cessa di essere una patologia e si adegua alle nuove tecnologie sotto lo sguardo cieco di chi è ancora convinto di farsi beffa della probabilità. Filosofia, letteratura e psicanalisi convergono nella lettura di un caso tutto meridionale

Qualche giorno fa a Monreale, nel palermitano, è successo dell’incredibile: un disoccupato 48enne, giocatore d’azzardo incallito, è stato arrestato. E non perché abbia fatto ricorso alla malavita per saldare i debiti ma perché, tamponando le vetture dei carabinieri, voleva farsi arrestare per vincere la dipendenza. Tuttavia, la dea bendata tanto inseguita, ora nei panni da giudice, ha condannato l’uomo alla libertà. La notizia sui generis è accompagnata da titoli sul boom di app per il gioco d’azzardo che per l’anonimato e l’accessibilità h24 attirano sempre più studenti. A preoccupare è il fatto che molti non sanno che giocare sotto i 18 anni è illegale. Sapranno che, giocando a trentuno in ricreazione o in piazza aspettando il bus, infrangono la legge? E l’uomo che gira alla fiera di Catania con un cartone per tavolino, tre bicchieri e una banconota da 20 euro, saprà che la sua slot machine ambulante è irregolare? D’altronde quella italiana è una lunga tradizione (di leggi mal pensate): i romani, a cui era vietato giocare d’azzardo, scommettevano sui combattimenti dei gladiatori.

In Ammalarsi per gioco (Bonanno Editore 2011), i due psicanalisti catanesi Salvatore Castorina (recentemente scomparso) e Giuseppina Mendorla analizzano le motivazioni che spingono al gambling, la patologia alimentata dalla selettività nel ricordare le vincite più che le perdite: ridurre senso di colpa e tensione, socializzare, divertirsi, ritagliarsi spazi di libertà, ingannare noia e apatia e ovviamente risollevare l’economia domestica. Scopritore moderno della noia è Pascal: «Niente per l’uomo è insopportabile come l’essere in pieno riposo, senza passioni, senza affari da sbrigare, senza svaghi, senza un’occupazione. Egli avverte allora la sua nullità». Mentre nei bambini la noia stimola la creatività, negli adulti può diventare il più temibile dei mostri che «vedrebbe volentieri crollare l’interno mondo e inghiottirebbe il globo con un grande sbadiglio», scrive Baudelaire. Ci colpa Copernico che, togliendo centralità alla terra, l’ha privata delle sue certezze ponendola in un universo infinito e inconoscibile. Sprofondando nello smarrimento, Pascoli risolve l’angoscia tornando un fanciullino che dando nome alle cose se ne appropria: si spiega in tal modo la nomenclatura ornitologica e botanica nelle sue poesie. Così il ludopata è un bambino che, giocando, chiama i numeri del lotto e si appropria pitagoricamente del mondo.

Il temine gioco non è di solito connotato di serietà, ma in realtà è una cosa seria: secondo Freud, produce coazione a ripetere che serve a porre le esperienze dolorose sotto il controllo della volontà. È con questi termini che analizza Il Giocatore di Dostoevskij. L’autore russo e il suo Aleksej ricordano l’esteta kierkegaardiano, il primo di tre stadi teorizzati dal filosofo danese. L’esteta vive l’attimo (l’ebrezza del gioco), fugge il passato (i debiti), rinunciando al futuro. È preda della noia per cui ha bisogno di mantenere interessante la sua vita. È soggiogato a un fattore esterno, la fortuna, anche se non mancano illusioni di libertà nella scelta di un gratta e vinci o nel cliccare il pulsante della macchinetta, mentre luci e suoni sono finti riflettori sul protagonismo: «I giocatori sviluppano false attribuzioni sulle relazioni causa-effetto, attribuiscono qualità personali alle macchine, presumono di esercitare attitudini in giochi di pura casualità, hanno false credenze, e superstizioni ed elaborano rituali per ingraziarsi la fortuna», notano i due psicanalisti siciliani. Disperato, l’esteta può optare per la vita etica. L’uomo etico segue moralità e ruoli sociali e vuole assumersi la responsabilità della propria vita. Quale impegno più impegnativo del carcere? Il ludopata palermitano è l’etico kierkegaardiano 2.0: la criminalità è percepita panacea contro i mali, all’interno di una strana moralità che spinge a tentare la galera per guarire dipendenze. Mancante (ancora) in questa storia è il terzo stadio, quello del salto della fede nel paradosso.

Qual è il più grande paradosso umano se non quello di credere che quando tutto va male possiamo perdonarci e ribaltare la nostra vita? Se c’è qualcosa che può fruttare il grattare, non è grattando cartoncini dorati ma la propria testa.

 

 

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