Il destino, talvolta, somiglia proprio ad un muro invalicabile. È capace di confinarti improvvisamente in un oblio immotivato, di seppellire le tracce della tua grandezza sotto una fitta coltre di ingiustificabili dimenticanze che non sanno andare oltre il tuo essere donna. Anche se il tuo nome, nel panorama letterario del ‘900, è uno di quelli imprescindibili, ammirati, emulati dai più grandi. Un muro che sa perfino essere beffardo. Perché quando finalmente ti dà l’illusione di disintegrarsi, di crollare sotto il peso della arretratezza che lo aveva tenuto in piedi sino a quel momento, in realtà le sue macerie ti hanno già trascinato con sé. Unendo misteriosamente la tua sorte a quella dei tanti arrembanti e disperati personaggi tratteggiati dalla tua penna. È, in sintesi, la storia reale e romanzesca di Laura Di Falco, scrittrice originaria di Canicattini Bagni che per tutta la vita lottò contro la corrente del perbenismo, della convenzione e dell’ipocrisia. Fu ben più, del resto, che la semplice pupilla di Montale o la fidata amica di Brancati: fu un simbolo. Uno spirito ruggente e indomito, moderno e poliedrico. Un’anima pura e irrequieta, insofferente alla bassezza del compromesso, convintamente antifascista ed anticlericale. Un raffinato e irriducibile emblema d’emancipazione femminile, capace come pochi altri di analizzare e descrivere le contraddizioni e i paradossi del secondo dopoguerra. Di un’Italia, e una Sicilia, ossessionate dell’inseguimento del progresso e sprofondate, invece, in un infelice immobilismo. Una visione, quella della Di Falco, velata di sfumature gattopardesche e derobertiane, eppure ugualmente originale. A cominciare, appunto, dal tema relativo ai diritti delle donne.

È esattamente da questa suggestione che prende le mosse l’opera che ne consacrò il ruolo di riferimento nel panorama culturale italiano: L’inferriata, romanzo pubblicato da Rizzoli nel 1976 e candidato al Premio Strega. Nella storia della giovane Diletta, infatti, – ambientata significativamente nell’Isola di Ortigia, uno dei luoghi d’infanzia della scrittrice – decadenza storica e morale si fondono perfettamente in quadro a tinte fosche. Figlia di genitori appartenenti ad un antico casato nobiliare, rintanati in un palazzo in rovina e abbarbicati a privilegi atavici e anacronistici, la protagonista è il perfetto prototipo di una nuova anima femminile, restia alla secolare etichetta di subordinazione che le è stata affibbiata. Si batte con tutta sé stessa per imporre il proprio modo di vivere, per liberarsi dai sedimenti di quelle asfittiche consuetudini, per esercitare, almeno in amore, la propria libertà di sfuggire alla sinistra prosaicità di un matrimonio combinato. Ma proprio quando gli eventi sembrano assecondare le sue “bizzarre” virtù, proprio quando l’adorato Mario, lontano dai fasti del sangue blu, viene accettato come suo compagno, la realtà torna bruscamente a bussare alla porta del sogno. Il grigiore della borghesia che uccide e sconfessa sé stessa irrompe e trionfa: «Chi invece s’inserì a suo agio nel gruppo – riporta citando il testo in suo articolo Clelia Lombardo – fu proprio Mario, come se si fosse trattato del suo ambiente naturale. Egli entrò nel salone con la faccia sorridente sulla tela chiara dell’abito estivo. Rivolse a tutti un sorriso (mai Diletta lo aveva sperimentato così espansivo)… si diresse verso la nonna seduta sotto lo stemma baronale e le baciò la mano; poi, come la cosa più naturale del mondo, le posò le labbra sull’architettura dei capelli…». È l’immagine complessiva e insuperabile di un vuoto incolmabile. Di un’epoca che avrebbe dovuto segnare un ipotetico salto in avanti – nel romanzo, ad esempio, viene citato l’allunaggio – e che invece si traduce in uno sprofondo nell’abisso. Di una danza di marionette che sovrasta ogni briciolo di autenticità. Diletta, l’eroina inconsapevole che aveva osato aprire uno squarcio di novità nel cielo della sopraffazione, ricade nella trappola esperita da tutte le altre donne del romanzo, imbrigliate in tristi amori-schiavitù.

In quel Sud che sembra non saper cambiare, che per non smarrire le poche certezze che ritiene di possedere si arrocca nella recita di un passato destinato a morire, le prigioniere sono ancora tante. Persino Laura Di Falco, che con la sua storia ha dato lustro a sé stesse e a tutte le altre, è parzialmente appartenente a quella categoria. Personaggio ella stessa di un romanzo che attende ancora la fine. Scrittrice di una vita che ha dimenticato la sua autrice.

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