Nel 1972, in Io vorrei…non vorrei…ma se vuoi, il binomio d’oro della canzone italiana Mogol-Battisti, alludendo al travolgente impeto del sentimento amoroso, si chiedeva: «Come può uno scoglio arginare il mare?». Probabilmente molti di noi vorrebbero che una risposta a quel quesito fosse stata trovata. Perché la passione, per sua stessa natura, ha come scomode compagne l’illusione, la delusione, il dolore. Si insinua nei cuori con inusitata dolcezza, salvo poi, nello spazio di un istante, graffiarne i battiti. Ed è forse per questa sua connaturata imprevedibilità, per il rischio di scottarsi a causa di mirabolante scommessa, che l’amore è spesso osteggiato, ostacolato, impedito. L’amore fa paura perché straccia le convenzioni, sovverte ogni certezza, rende sbiaditi i margini confortanti tra giusto e sbagliato. Vive solo di sé stesso, egoista nella sua ferrea pretesa di essere realizzato, nella sua ambizione di essere esclusivo rispetto ad ogni altro genere di affetto, persino quello familiare. Capita, così, che il cuore innamorato possa anche essere quello più segnato, diviso tra approvazione e salto nel vuoto, tra equilibrio e sospensione. Lo sperimentarono sulla propria pelle Elio Vittorini e Rosa Quasimodo, grandi protagonisti della scena intellettuale novecentesca ma prima ancora novelli Giulietta e Romeo vinti da una vorticosa attrazione amorosa. Nella loro vicenda intricata e controversa, a tratti suggestiva e persino poetica, scandita da spaventevoli silenzi, distanze apparentemente incolmabili e irrefrenabili ritorni di fiamma, ci fu tutto il fascino e il dramma di un grande amore destinato ad estinguersi fin dalla nascita, eppure troppo forte per piegarsi a quel presagio.

Una storia da pellicola di successo – verrebbe da dire – che la donna ripercorse nel volume dal titolo emblematico Tra Quasimodo e Vittorini, a simboleggiare i due fuochi che finirono per entrare in rotta di collisione. Rosa, infatti, sorella del grande Salvatore, era stata promessa dalla famiglia ad un uomo di alto rango. Ma la sorte volle che nella Sicilia degli anni ’20, dell’onore da preservare ad ogni costo, le cose andassero diversamente. Da poco trasferiti a Siracusa per via della mansione da capostazione del padre, i Quasimodo fecero la conoscenza del giovane e scapestrato Vittorini, di ritorno nell’isola da Benevento, dove risiedeva da qualche tempo con la zia. Bastarono giusto un paio di sguardi, qualche ammiccamento e qualche momento di solitudine al riparo da occhi indiscreti a far divampare la scintilla. «Certe sere andavamo a casa Vittorini, dove il padre di Elio leggeva le sue poesie. Una volta mi voltai a guardarlo: sentivo il suo sguardo intenso su di me, e mi accorsi improvvisamente che era bello, bellissimo, i capelli dorati e gli occhi a mandorla. Le prime tenerezze me le rubò sulla soglia di casa, mentre i miei ignari di tutto in quell’ora stavano ad innaffiare le piante e non potevano sorprenderci. L’amore nacque in me, ma per farmi soffrire: era irrealizzabile. E così per paura che mi sposassi, architettò tutto un piano di fuga». Fu Ugo Vittorini, fratello di Elio, a vestire i panni di Galeotto e a facilitare quella che, a tutti gli effetti, può essere definita come una delle fuitine più illustri di sempre. «Una notte d’agosto, presi accordi, mi aspettò alla finestra della sua camera, attraversai scalza tutta la tettoia della stazione, ed entrai in casa sua, che era all’altro capo della mia. Con la complicità di suo fratello fuggimmo con una carrozza verso un alberghetto fuori città». In quell’albergo, tuttavia, i due amanti fuggitivi non misero mai piede perché non furono accolti. Passarono la notte in una cornice da sogno: sovrastati dalla magia del cielo stellato, sostarono sui gradoni in pietra del Teatro Greco di Siracusa, in attesa che l’alba annunciasse loro un nuovo corso. Che, in effetti, prese vita il 10 settembre 1927, quando i due convolarono ufficialmente a nozze per poi stabilirsi, due anni dopo, a Firenze. Non prima, però, che Rosa avesse spedito una lettera ai propri familiari, in cui aveva tentato di spiegare le sue innocenti ragioni. La risposta del padre fu netta e, per dirla tutta, terribile: insieme alla corrispondenza trovata tra gli effetti personali della figlia e risalente al periodo dei primi corteggiamenti, fu strappata in mille pezzi. Il preludio alla fuga dei Quasimodo dalla Sicilia verso Gorizia, per l’insopportabile onta della collettiva disapprovazione del paese per la condotta di Rosa.

Quel sogno d’amore di una notte di mezza estate, tuttavia, non cedette alle circostanze. Continuò ad ardere fin quando fu possibile, simbolo di una impareggiabile fierezza. E poco importa che il veleno delle incomprensioni pian piano finì per corroderne le fondamenta. E che la guerra, le persecuzioni razziali, la caccia all’uomo (Vittorini divenne ben presto un obbiettivo sensibile dello squadrismo fascista per le sue aperte manifestazioni di dissenso, tanto che la stessa Rosa venne a più riprese interrogata in malo modo per estorcerle delle informazioni) ne abbiano poi decretato la fine. Rimane la malinconica libertà di una coppia che, amandosi, ha aperto uno squarcio di futuro in un passato stantio. Il calco soave sul marmo della memoria: il quale, pur rapprendendosi, lascia di sé la traccia di un capolavoro.

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