Il Teatro ha inaugurato la stagione lirica con la penultima opera scritta da Mozart. Un esordio scoppiettante, come non ne vedevamo da tempo, in cui lo spessore degli interpreti viene esaltato sia dal punto di vista vocale che interpretativo

Il compianto Forman per il suo Amadeus aveva immaginato che fossero stati gli striduli rimbrotti della suocera, al fare scriteriato di un malconcio Mozart, a ispirargli la complessa aria della Regina della notte (Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen). A quasi novant’anni dalla messa in scena del Singspiel, datato 1791, Moritz Zille scrisse invece che l’ambiguo personaggio di Astrifiammante era in realtà la trasfigurazione dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, per via del suo atteggiamento ostile nei confronti della massoneria, a cui sia il compositore, sia l’amico e librettista Schikaneder appartenevano. Ma, come si sa, quando si parla del grande compositore austriaco è facile affermare tutto e il suo contrario, un mistero che ne avvolge la figura e che contribuisce a renderlo immortale allo sguardo dei posteri. Pier Luigi Pizzi per il suo Flauto Magico (Die Zauberflöte), che inaugura la stagione lirica al “Teatro Massimo Bellini” di Catania, immagina piuttosto una Regina della notte più subdola che temibile (avvolta in un’aura da diva del cinema muto), rimettendo al centro del plot la coppia di innamorati e la distinzione fra la dimensione naturale e quella dell’intelletto, frutto dell’imperversante Illuminismo. Sul podio a dirigere i cantanti, il Coro e l’Orchestra del Bellini, troviamo il maestro Gianluigi Gelmetti, già noto alle cronache per aver guidato il “Requiem”, in occasione dell’apertura della sinfonica.

ACUTO E GRAVE. Un esordio scoppiettante, come non ne vedevamo da tempo, in cui lo spessore degli interpreti viene esaltato sia dal punto di vista vocale che interpretativo, a cominciare proprio da Eleonora Bellocci, la quale ha affrontato con sicurezza l’aria di coloratura di Astrifiammante svettando con precisione nei sovracuti e conferendole senza troppa difficoltà un’impronta drammatica. Pizzi, la concepisce dall’andatura umana, quando con tenerezza quasi materna accoglie sul petto la testa di uno sperduto Tamino (Giovanni Sala). Un’immagine che stride con la postura granitica e asciutta assunta durante i suoi ingressi in scena mentre con aria superba regge il lungo abito. Se Sala, sostenuto da una voce rotonda, sottolinea la crescita interiore del personaggio che da giovane diventa uomo civile e degno di entrare nel tempio della luce raggiungendo la felicità; il basso Andrea Concetti offre un Papageno, compagno di mille avventure di quest’ultimo, dall’indubbia verve attorale, in cui physique du rôle e agilità vocale sono i tratti distintivi. Fra balzi e piroette si muove con tenacia sulla scena sin dal suo ingresso risultando esilarante nel duetto del II atto, quando dopo aver simulato un tentativo d’impiccagione, incontra finalmente la sua Papagena (Sofia Folli), che rispetto all’iniziale vecchina dalla voce squillante appare, sotto finale, in tutto il suo splendore. I due in un turbinio passionale si uniranno per non lasciarsi più. È però a Elena Galitskaya, Pamina, che va il plauso più grande; un timbro luminoso, un fraseggio accurato, un colore suadente per una voce dall’impostazione solida, di vecchia scuola. Ma non solo, il soprano si mostra come un’eroina moderna in grado di tenere testa alle difficoltà che le si presentano davanti. Eccellenti sono anche le tre Dame: Pilar Tejero, Katarzyna Medlarska e Veta Pilipenko, ironiche, sagge per la parte espressiva, puntuali nella dizione e accurate nell’ordito canoro per quella tecnica. Il Sarastro di Karl Huml più a suo agio nel registro medio, dove ha un’ottima musicalità, è solenne nelle parti recitate mentre il Monostatos di Andrea Giovannini è un malvagio di prim’ordine, che tenta con fare lascivo di insidiare Pamina, tuttavia in alcuni passaggi risulta essere fuori fuoco. Bene invece Oliver Pürckhauer e Riccardo Palazzo che s’integrano alla perfezione nell’affresco mozartiano ricoprendo diversi ruoli, in un equilibrio armonico perfetto. Infine, i tre fanciulli interpretati da Giulia Leone, Gabriella Torre e Giuliana Ciancio, essenziali all’evoluzione del racconto, hanno avuto momenti altalenati passando da una performance soave a tratti nebulosi, mentre dal punto di vista performativo sono ancora piuttosto acerbe.

Foto Giacomo Orlando

ESSENZIALITÀ. Pizzi, che ritroviamo nella triplice veste di regista, scenografo e costumista è lineare nella costruzione della narrazione, all’elemento fiabesco, infatti, preferisce quello razionale. Non è un caso che la scena sia costituita da un’imponente biblioteca, emblema del sapere, che si apre per lasciare spazio al tempio bronzeo dei Massoni. Qui i riferimenti simbolici sono molti: il sole, la luna, il compasso e la squadra, che dominano sul frontone; il pavimento a scacchi che conduce in una delle tre porte, mentre ai lati dell’edificio ci sono due colonne, Jachin e Boaz, che rappresentano la fratellanza e che sono sormontate da una sfera armillare. La dimensione sovrannaturale, passa dunque in secondo piano, il serpente che all’inizio attacca Tamino viene sostituito da tre figure dai colorati costumi, mentre l’uccellatore e Monostatos rimandano alla sfera animale, uno con le zampe ricoperte di piume gialle, l’altro, che da libretto è il perfido moro, ha gli arti inferiori ricoperti di pelliccia, la faccia nera e una lunga coda di topo. Se la scena non è sbalorditiva è funzionale e permette attraverso l’apertura e la chiusura di restituire diversi ambienti. La disposizione sul palcoscenico degli artisti e del coro è altresì efficace conferendo una certa vivacità all’azione soprattutto grazie all’agilità da saltimbanchi di Papageno e Monostatos che in diversi punti danno prova di straordinaria destrezza. Le intenzioni sono ben tratteggiate anche nei restanti protagonisti che vengono delineati al meglio, in particolare le tre coppie: Papageno e Papagena, avvolta anche lei in morbide piume gialle; Tamino e Pamina, caratterizzati dal bianco, scarpe sportive, vestitino corto con gonna a ruota per lei e pantalone e camicia per lui e infine la coppia alta di Sarastro e Astrifiammante, l’uno in smoking impreziosito dal Grambiule massonico, lei in un lungo abito nero in lurex, per uno scontro avvincente fra bene e male. Il tocco di contemporaneità a cui Pizzi non vuole rinunciare lo ritroviamo nello smartphone, che sostituisce il più convenzionale ritratto di Pamina e che tutto sommato non risulta dissonante rispetto al resto.

Foto Giacomo Orlando

MUSICA MAESTRO. La coppia Gelmetti / Pizzi restituisce dignità all’ouverture, che viene eseguita a sipario chiuso, permettendo di apprezzarne al meglio la raffinatezza compositiva. La bacchetta di Gelmetti ha un piglio sicuro ma morbido, quasi di velluto, restituendo al meglio una sonorità unica in continua evoluzione. Come sempre l’Orchestra e l’eccellente Coro, diretto da Luigi Petrozziello, soprattutto nella vigorosa sezione maschile, hanno conferito un’aura magica a questo Singspiel tedesco. Le voci bianche invece sono state preparate a dovere da Daniela Giambra, anche se qualche aspetto, come abbiamo già accennato, va rivisto. Un’accoglienza cordiale da parte del pubblico un po’ ingessato della prima, ma che siamo certi si arroventerà nelle prossime repliche. D’altra parte Il flauto magico mancava da quasi trent’anni dal palcoscenico etneo e siamo sicuri che questa rappresenterà un’occasione ghiotta per tutti di vedere la penultima opera scritta dal grande genio austriaco.

Il nostro impegno è offrire contenuti autorevoli e privi di pubblicità invasiva. Sei un lettore abituale del Sicilian Post? Sostienilo!

Print Friendly, PDF & Email