La purezza nel cuore, la poesia nel destino: la Sicilia favolosa e tragica di Vann’Antò
Vivere da poeti è quanto di più vicino esista al concetto di vocazione. Laica, carnale, talvolta persino maledetta, ma pur sempre vocazione. Il richiamo del verso, d’altra parte, non è qualcosa che può essere inseguito, costruito, pianificato. Perché poeti, in qualche modo, si nasce: e solo in virtù di questa consapevolezza lo si può pienamente diventare. È la poesia a scegliere il proprio cantore, non viceversa. Anche quando un destino avverso suggerirebbe di rinunciare, quando tutto concorrerebbe a scoraggiare questa ardita ambizione, la sua anima ineffabile mantiene sempre la misteriosa capacità di sovvertire le aspettative. Persino se nasci nella Ragusa di fine Ottocento, ultimo di sette fratelli, in una famiglia interamente composta da minatori, che per te ha già predisposto, fra tradizione e necessità, il medesimo futuro. Ma Giovanni Antonio Di Giacomo, passato alla storia come Vann’Antò, dalla poesia non è stato soltanto scelto, ma addirittura salvato. Il suo amore per le lettere e per la scrittura lo sottrasse alla sorte dei tanti Ciàula e Rosso Malpelo senza nome, inghiottiti dal silenzio assordante della terra e della rena. E a questa grazia il poeta restituì per il resto della sua vita un’immensa gratitudine, imponendosi come una delle voci più riconoscibili e passionali della lirica novecentesca. Pochi, non a caso, seppero coniugare con la stessa maestria interessi di carattere internazionale e valorizzazione delle proprie radici. Se da un lato, infatti, fu un eccellente traduttore dei contemporanei lirici francesi – che stavano contribuendo a rivoluzionare, sulla scia di Baudelaire, la poesia europea – tanto da meritarsi le attenzioni di Pasolini che insieme a lui, successivamente, tenne un dibattito sul tema nel 1955, dall’altro acquistò la sua fama presso i conterranei grazie ad una produzione in siciliano dai contorni affusolati, raffinati, confortevolmente familiari, ma non per questo meno incisivi e diretti. Al suo sguardo compassionevole e solidale nei confronti dei cuori isolani afflitti dalla miseria e dalla guerra non rimasero indifferenti giganti del calibro di Salvatore Quasimodo, Leonardo Sciascia e Giuseppe Ungaretti, nonché illustri rappresentanti politici come Giorgio La Pira, che a più riprese ne tesserono le lodi collocandolo nell’Olimpo dei grandissimi. Appassionato ed esperto com’era di letteratura delle tradizioni popolari – di cui fu docente presso l’Università di Messina – seppe scandagliare con sincero affetto quel mondo variegato di riti secolari e piccole conquiste, di preghiere disperate e costosi sacrifici. Di drammi materni generati da insensati conflitti, di cui splendida testimonianza è La Cartullina:
Ci sono, in questo canto tristemente beffardo, tutte le contraddizioni di una terra martoriata a cui il dolore non sembra voler dare tregua, e il dispiegarsi tragicomico dell’impeto perverso della storia, che attraverso eventi troppo grandi per essere compresi travolge e consuma la tenerezza degli affetti familiari. Ma anche squarci di laboriosa quotidianità, portatori al tempo stesso di un senso quasi ancestrale, favolistico. Come ben mette in luce Contadini al mare:
Una vera perla, come tante altre contenute in pietre miliari come Madonna nera (1955) e U vascidduzzu (1956). Perle che, come accade inspiegabilmente di frequente, continuano a brillare nella semi-indifferenza generale. Coperte dalle sabbie del tempo e per questo difficili da scovare. Ma non è forse la rarità un presupposto essenziale della preziosità?