Negli anni ’80 era frequente che i genitori tornassero a casa per la “pausa pranzo”,  oggi per moltissimi sarebbe impensabile. Il mondo del lavoro non lo permette più, ma probabilmente noi stessi non ce lo permetteremmo

Workaholic così sono molti genitori oggi. È un neologismo inglese che possiamo tradurre con ubriachi di lavoro, anzi dipendenti da lavoro, patologicamente malati di lavoro. Eh sì, perché se al lavoro ci si può ammalare, si può anche essere ammalati di lavoro. È una malattia che non risparmia nessuna categoria, colpisce tutti, sia gli uomini sia le donne, così come, potenzialmente, ogni tipo di professione: casalinghe, manager, liberi professionisti, commercianti, a nessuno è garantita l’immunità. A nessuno, nemmeno ai padri e alle madri di famiglia.

La possibilità di lavorare in remoto estende oltre il classico orario di lavoro il tempo della professione, lo dilata all’inverosimile

Nel corso di qualche decade abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione sociale. Ancora negli anni ’80 era frequente che i padri tornassero a casa per la “pausa pranzo”: era l’occasione per incontrare i figli tornati da scuola, la donna che era stata a casa o che lei stessa era riuscita a rientrare dal lavoro, e perché no anche per riposarsi e staccare un po’. Oggi per moltissimi sarebbe impensabile. Il mondo del lavoro non lo permette più, ma probabilmente noi stessi non ce lo permetteremmo. Complici anche la tecnologia e quella strana mutazione che ci ha colto di dover essere always on. La possibilità di lavorare in remoto – oltre che con la posta, anche con i file sul computer oppure con i dati nel cloud oppure con Skype e altri sistemi di comunicazione a distanza – estende oltre il classico orario di lavoro il tempo della professione, lo dilata all’inverosimile. Ciò che apparentemente prometteva di liberare il lavoratore da orari, luoghi e schemi fissi, in realtà si è rivelato in numerosi casi una vera e propria schiavitù. Sempre connessi, significa anche sempre attivati, sempre usabili, sempre sull’attenti, e soprattutto non disponibili ad altro, a nient’altro. Figli compresi, anche nell’età in cui la presenza di un genitore è così importante, anche nell’età in cui quella presenza sarebbe così importante e ritemprante e ricentrante per il genitore stesso.

Non è vero che oggi il tempo manca, il tempo è lo stesso, per tutti gli uomini e da sempre. È cambiato invece ciò per cui vogliamo spenderlo

Non è facile oggi distinguere il workaholic da un semplice hard worker, tra chi è diventato patologicamente dipendente dal lavoro e chi solamente lavora sodo per necessità o gusto personale. Per poterlo discriminare potremmo usare come test il saper distinguere tra vita professionale e vita personale; anzi diciamolo meglio, la differenza si gioca proprio tra chi sa conservare una vita non esclusivamente definita dai compiti legati al lavoro (visto che resta pur sempre vita personale anche quella lavorativa) e chi non fa né pensa ad altro che alle proprie mansioni. Non è vero che il tempo manca, il tempo è lo stesso, per tutti gli uomini e da sempre. È cambiato invece ciò per cui vogliamo spenderlo. Vero, la situazione è cambiata, le pressioni sono più alte, la paura di perdere il lavoro e i ricatti cui talora si deve sottostare pur di mantenerlo non possono essere ignorati. Anzi vanno considerati attentamente come spunti di intervento sociale e politico. Resta però che l’individuo ha sempre una facoltà a disposizione, il suo pensiero che muove le decisioni e libera gli atti.

Distratti a rincorrere le scadenze rischiamo di dimenticarci persino che abbiamo un compagno e una compagna, dei figli, una vita. Eppure lo spettacolo dei figli che crescono non ammette repliche

A volte, infatti, basta pensarci. Ci sono davvero momenti in cui è necessario restare a lungo al lavoro, magari in prossimità di scadenze o chiusure o di deadline talora tanto assurde quanto improrogabili. Però ce ne sono certo altri in cui si può decidere “per oggi basta così, ho altro di importante che mi aspetta”. Ci sono davvero momenti in cui è necessario rispondere all’istante a una mail o al cellulare. Però ce ne sono certo altri in cui è possibile procrastinare la risposta e continuare ad ascoltare le persone che sono con noi, a vedere il film che abbiamo scelto insieme, a finire il pasto comune. Distratti a rincorrere le scadenze rischiamo di dimenticarci persino che abbiamo un compagno e una compagna, dei figli, una vita. Eppure lo spettacolo dei figli che crescono è uno spettacolo che non ammette repliche, ogni scena persa è andata, non si ripeterà. Non perdiamoci allora questo spettacolo. E non facciamo neanche perdere ai nostri figli lo spettacolo della nostra compagnia, che se non deve essere esclusiva e totalizzante, è per loro la via attraverso cui diventare grandi, pensarsi uomini e donne, pensarsi nel futuro, pensarsi impegnati con la propria vita. Impegnati, non incastrati. Non lo vorremmo per loro, evitiamolo quindi, il più possibile, per noi. Non lasceremo in eredità solo i soldi e gli averi, ma anche il modo con cui li abbiamo prodotti. Lasceremo in eredità la nostra concezione del lavoro. Tanto più umana e personale e inclusiva dei diversi aspetti sarà, tanto meglio staremo, staranno, tutti.


Luigi Ballerini

Luigi Ballerini, medico e psicoanalista, vive a Milano con la moglie e i suoi quattro figli. Dice sempre di essere fortunato perché incontra molti giovani, sia nel suo studio professionale, sia presso scuole o centri culturali. Scrittore per ragazzi, per il libro Zia Dorothy (Giunti) è stato insignito del White Raven Award 2009; con La signorina Euforbia (San Paolo) nel 2014 ha vinto il Premio Andersen per il miglior libro età 9/12 anni e nel 2016, con Io sono zero, ha vinto il Premio Bancarellino.  Tra le sue pubblicazioni per adulti 120 giorni che ti cambiano la vita (Rizzoli 2008), E adesso cosa faccio? Ripensare il rapporto fra genitori e figli (Lindau 2012), I bravi manager cenano a casa (EMI 2015). Giornalista pubblicista è editorialista per Avvenire e collabora con Il Sole 24Ore per la tematica lavoro.


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