Qual è il prezzo dei sogni? La loro realizzazione vale la perdita della nostra identità? A volte, come il personaggio verghiano, siamo vittime di una spirale inarrestabile di eventi: inseguiamo la felicità, ma nel farlo ci perdiamo in ogni oggetto che non riusciamo ad afferrare. Contro le brutture della vita, allora, il segreto è aggrapparci alle nostre certezze

Cos’è più forte? Il sogno o la realtà? Natura o cultura, autenticità o finzione: cosa prevale, alla fine, nella vita di un uomo? Interrogativi eterni, su cui la letteratura ha sparso fiumi d’inchiostro senza venirne a capo definitivamente: a volte la conciliazione di questi opposti è stata vista come possibile, altre volte la distanza tra queste istanze ha generato profonde lacerazioni, non solo nei personaggi creati, ma anche nei loro creatori materiali. Giovanni Verga di questi sentimenti se ne intendeva: egli stesso fu di frequente un sognatore, un pervicace oppositore alla drammaticità di una vita che spesso non ha lasciato spazio a gioie durature. Nonostante il tono delle sue opere possa condurci ad una tale considerazione, il soffocante determinismo in cui le sue creature letterarie finirono spesso per essere ingabbiate non fu l’orizzonte esclusivo in cui credeva dovesse dipanarsi il filo del destino umano. Guardò sempre con una certa speranza al mondo che lo opprimeva, nell’attesa di uno spiraglio, di una crepa tra le maglie fitte della povertà e dell’indifferenza. La sua resistenza ebbe esiti alterni, testimoniati da alcuni personaggi simbolo della sua produzione. Uno di questi è Gesualdo Motta: colui che sognava il riscatto e che finì per assistere amaramente alla sua auto-distruzione.

«Si vede com’era nato – osservò gravemente il cocchiere maggiore. – Guardate che mani!». È la lapidaria sentenza successiva alla morte dello stesso protagonista, con disprezzo definito Mastro-don per via della sua insolita e malvista ascesa sociale. Nel passo in questione dell’omonimo romanzo pubblicato nel 1889, da non sottovalutare è il dettaglio dello sguardo che si posa sulle mani di Gesualdo: ancora marchiate dall’uso prolungato della cacina, sono rivelatrici di una verità tanto nascosta quanto ineludibile. Sono le mani di un lavoratore, di un umile uomo di periferia. Quelle mani sono il segno di un’identità incancellabile nonostante gli sforzi, di una sorte compromessa già in partenza. Perché quella del Mastro-don Gesualdo è una parabola contemporaneamente ascendente e discendente: attraverso acquisizioni di terra, matrimoni furbamente combinati, gestioni accorte ed avare del patrimonio faticosamente acquisito («A chi ti vuol togliere la roba levagli la vita!» viene detto ad un certo punto del romanzo) la scalata del semplice mastro sembra inarrestabile. Ma, parallelamente, per ogni guadagno è come se un perverso meccanismo di sottrazione portasse via, con forza raddoppiata, ogni pezzo della sua anima: così per l’amore mai sbocciato con Bianca, la dubbia paternità su Isabella, che per tutta la vita lo guarderà con odio e freddezza – specie dopo l’episodio della monacazione coatta e della relazione con Corrado – per la perdita progressiva del proprio patrimonio a causa delle minacce e della scelleratezza del genero. Nell’acquistare prestigio e denaro, Gesualdo perde ogni sorta di contatto positivo col mondo, infettato dal veleno dell’invidia e della pazzia. Morirà, infatti, disperato e solo, odiato sia dalla sua vecchia classe sociale, tradita dalle sue aspirazioni da parvenu, che dai nobili finalmente raggiunti, orgogliosamente restii ad unirsi a tanta bassezza.

La vicenda di Gesualdo Motta dimostra l’esistenza di una traccia naturale che connota ogni soggetto: seguirla o deviarne può fare la differenza tra la vita e la morte. Non tanto in virtù di un determinismo inesorabile che blocca il flusso delle nostre vite all’infelicità perpetua, ma per difenderci dalla crudeltà delle circostanze. Gesualdo finisce per perdersi tra quei sogni che aveva coltivato, tra quei tesori materiali che aveva inseguito con affanno. Come il suo emulo novellistico Mazzarò, in questa spirale frammentata il personaggio verghiano perde se stesso, si disintegra in altrettanti cocci quanto sono quelli dei progetti infranti. Gesualdo non finisce per essere infelice per l’arroganza di aver provato il grande salto nella scala sociale, ma per il peccato di aver sacrificato il suo essere nel farlo. Così Verga ci indica la strada maestra per rimanere artefici del nostro destino: restare fedeli al nostro proposito, guardarsi dall’ambizione sfrenata in nome di un impegno costante, forse meno redditizio, ma anche e certamente meno logorante. Non si tratta di rinunciare a puntare alla vetta: si tratta di non subire lo scacco degli eventi, la dannazione terrena alla prigionia delle logiche di un mondo che non ci appartiene. C’è una natura, invece, che ci appartiene, che ci rende riconoscibili: come la cacina sulle mani del mastro, lascerà sempre la sua orma. Sta a noi non farla tramutare in rimpianto.

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