Ciò che chiamiamo libertà, a volte, non è che la crepa sottile, fragile, impercettibile di un muro costruito su opportunismo e passività. Un appiglio traballante che si svela, di tanto in tanto, tra l’indifferenza delle masse e la debolezza del singolo. Un grido rauco e soffocato che finisce per essere trascinato dall’ottusa corrente della maggioranza. Diceva Antonio Gramsci come «ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare». Ma se quell’ammutinamento fosse esso stesso un casuale e involontario risveglio? Se si rivelasse l’ennesima occasione per salire su un carro più promettente di quello da cui si è appena scesi? Sarebbe davvero possibile definire quel calcolo meschino, quell’atteggiamento da rapace ormai introiettato, come una riconquista della libertà? Sono queste alcune delle domande che Vitaliano Brancati, all’indomani della caduta del fascismo, pose a sé stesso e ai suoi lettori. Se, infatti, la fine della guerra aveva posto fine, almeno politicamente, alla pagina più buia della nostra storia recente, non così era stato per il becero trasformismo italico, che nel giro di appena qualche mese – se non qualche giorno – aveva abilmente riciclato le proprie simpatie totalitarie in un amore viscerale e convinto per la prassi democratica. È tra amarezza ed ironia che lo scrittore siciliano, nei suoi racconti post-bellici, tratteggiava i paradossi di un mondo alla rovescia, nel quale i rivoluzionari finivano per essere condannati, gli onesti miscreduti e gli arcigni sostenitori del regime esaltati per il loro camuffamento da paladini della giustizia.

Uno di questi, Il vecchio con gli stivali (titolo che poi identificò l’intera raccolta pubblicata nel 1946 da Bompiani) ben incarna questa surreale dinamica nella vicenda del mesto e pigro Aldo Piscitello, impiegato di un piccolo comune siciliano che, in pieno regime, rischia di perdere il posto perché non ha ancora aderito con convinzione al progetto mussoliniano ed è sprovvisto della tessera. Ma il suo sottrarsi all’imposizione – lascia trasparire Brancati – non è dettato da un moto interiore di ribellione o da un guizzo di moralità. Ma dalla semplice inerzia. È la moglie a spingerlo ad iscriversi al partito, per garantire la sopravvivenza della famiglia. Ed è la stessa donna a riscriverne la storia: falsificando i documenti con l’intento di percepire l’indennità destinata ai fascisti della prima ora, Aldo finisce per risultare uno squadrista fin dal 1921. È un protagonista fiacco, pusillanime, goffo quello a cui Brancati affida l’incarnazione di un’intera generazione perduta, intimamente avulsa e scollata dalla propaganda del partito, eppure in balia di una corrente folle, di un cieco e generale ottundimento. Tutto sembra cambiare nel 1938 a causa delle leggi razziali: è in quell’occasione, agli occhi di Aldo, che il fascismo toglie i veli alla sua vera, feroce natura. Ma, benché più consapevole, è lo stesso Aldo di prima: inerme, impotente, capace solo di stropicciare la propria divisa prima di una parata come estremo gesto di disappunto. «Non aveva grandi ideali né ambizioni né bisogno di spazio e libertà per i suoi progetti. In quale punto segreto lo avevano toccato? E così, senza parere, come aveva potuto, la società in cui egli viveva, stringerlo per il collo sino a farlo starnazzare come un pollo che ha capito improvvisamente le intenzioni della mano che pareva accarezzarlo?». Il destino tragicomico dell’impiegatucolo sembra già segnato: la vittoria degli alleati è il preludio alla beffa finale. Mentre le alte cariche svestono i panni del regime per indossare quelli delle vittime, mentre gli infervorati del ventennio, tra cui la moglie del protagonista, si riscoprono improvvisamente ammiratori degli anglo-americani (perché la democrazia in fondo non è poi così male), Aldo finisce sul banco degli imputati. Licenziato per la sua “fedeltà di lungo corso”. Emarginato per colpe indirette: «Non posso fare altrimenti – proclama il sindaco – So come lei la pensava. Ma il fatto è che lei è squadrista! Diamine, squadrista!».

È il trionfo dell’ipocrisia. L’affermazione dell’indifferenza e dell’inganno. Il naufragio di un singolo che cede, suo malgrado, alla prepotenza del gregge. Il deviare della storia che confonde utilitarismo e indipendenza di pensiero. La dimostrazione che la libertà va mostrata e proclamata. Prima che venga annacquata da qualcosa di inautentico.

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