Vittorini e una domanda millenaria: perché cerchiamo la felicità fuggendo?
Nella ventottesima delle Epistulae morales indirizzate al caro Lucilio Iuniore, poeta e governatore della Sicilia intorno all’anno 65, il filosofo Seneca ammonisce il suo interlocutore – e indirettamente tutti i fruitori successivi del loro scambio di missive – a proposito di una delle attitudini che più definiscono la natura dell’essere umano: quella della fuga. «Credi che questo sia capitato soltanto a te e ti meravigli come di una cosa straordinaria che, nonostante le tue peregrinazioni così lunghe e tanti cambiamenti di località, non ti sei scrollato di dosso la tristezza e il peso che opprimono la tua mente? Devi cambiare d’animo, non di cielo. Puoi anche attraversare il mare, terre e città retrocedano pure come dice il nostro Virgilio: ebbene, i tuoi difetti ti seguiranno ovunque andrai. A un tale che esprimeva questa stessa lamentela Socrate disse: “Perché ti stupisci, se i lunghi viaggi non ti servono, dal momento che porti in giro te stesso? Ti incalza il medesimo motivo che ti ha spinto fuori di casa, lontano”». Che si tenti di scampare alle scottanti orme lasciate sul cuore dal dolore, o di sottrarsi alle soffocanti costrizioni della consuetudine, o ancora al proprio senso di inadeguatezza, è come se aleggiasse, nell’animo di chi si getta a capofitto verso le rassicuranti vaghezze dell’ignoto, la convinzione che la felicità, per essere raggiunta, vada sempre cercata altrove. Che l’unico modo per sottrarsi a questo fatale senso di stasi sia muoversi. Muoversi fisicamente. Attraversare, se necessario, i quattro angoli del globo. Ed il globo, di cui la Sicilia è metafora più che perfetta, sembra fare da scenario anche all’ultimo – e decisamente senechiano – romanzo di Elio Vittorini, vale a dire Le città del mondo. Pubblicata postuma (e incompleta) nel 1969, con la curatela di Vito Camerano e Italo Calvino, l’opera dello scrittore siciliano ha quasi le fattezze di un immenso affresco, che ritrae un’umanità smarrita ma determinata, a tratti disperata e senza bussola, ma ugualmente intestardita nel portare a termine la sua acrobatica odissea.
Pastori, contadini, giovani che si affacciano alla vita e anziani a caccia di una seconda possibilità, persino pupari e misteriosi personaggi senza nome: nelle cinque vicende che fanno da cornice narrativa del romanzo, l’unico, indistruttibile filo che tiene insieme questi destini disparati è l’affannosa ricerca di qualcosa. Persino la nostra bella isola, che pure, ad intermittenza, si mostra nella sua inconfondibile determinatezza, appare sfumata, scontornata, sospesa come lo sguardo dei viandanti vittoriniani che la attraversano. Le sue città, i suoi tempi scanditi in maniera bizzarra, non sono che il risultato di un’illusione, di una fantasia confortante. Non sono che il miraggio, il riflesso di quella pace tanto agognata ma mai effettivamente riscontrata. Non sono i luoghi, insomma, che plasmano la sorte dei personaggi: bensì il contrario. Sono le paure di Giochino e Michela, di Odeida e Rea Silvia. Le paure di Rosario e di suo padre, destinati a perdersi in questo viaggio incessante e dolcemente travolti da una visione che ben sintetizza lo spirito del lavoro di Vittorini: «Essi s’eran trovati a condurre il gregge, cercandogli un luogo non coltivato che potesse servirgli da pascolo. Il posto appariva solitario: una spianata di roccia con cielo quasi da ogni lato; e padre e figlio, stanchi e accecati dal sole, non aspettarono di raggiungere uno dei suoi limiti per fermarsi a mangiare un po’ di pane e olive. Poi il sonno s’era posato in fronte a entrambi con un peso misto di odori campestri e di luce diventato a poco a poco anche di musica per via dei belati e dei rintocchi di bronzo che si alzavano, alle distanze più varie, dalle pecore». In questa mitica, soffusa, candida Arcadia ideale fa però, improvvisamente, irruzione quel pungolo invisibile. La curiosità del sogno. L’impossibilità di confinare ad un luogo e ad un momento il fluire della propria vita. «Ma al risveglio si accorsero che in quella musica vibrava uno strano miele come se un’orchestra suonasse davvero da qualche parte: o di sopra a loro nella profondità del cielo, o di sotto a loro nella profondità della terra su cui sedevano. Istintivamente, sollevarono gli occhi a cercarla entro il culmine dell’azzurro. Nel frattempo distinguevano note anche familiari attraverso il rombo dei suoi metalli sconosciuti. Voci umane? Rumori dell’attività degli uomini? Pareva che si udisse persino il cigolio di un carretto. Era come qualcosa che arrivasse da lassù a un compimento immortale da uomini lontani di migliaia di anni o di migliaia di chilometri. Padre e figlio si scambiarono un’occhiata; e di nuovo percorsero con lo sguardo la superficie del deserto di pietre fin dove l’aria lo tagliava; poi si misero a riunire le pecore. L’uomo fischiava loro. Il ragazzo correva intorno insieme al cane. Ma egli si arrestava ogni tanto dietro a un arbusto o dietro una roccia; e anche otteneva, per un minuto o due, che il cane smettesse di abbaiare. Egli voleva sentire, evidentemente, se lo strano suono vi fosse sempre. Correva e scompariva. Ricompariva e correva». Un desiderio incompleto. Come il romanzo che lo analizza.
È questo che facciamo: correre. Spesso senza meta. Attratti dal richiamo ancestrale di un sentimento che fu. O di uno che speriamo possa nascere. Ci lanciamo presi dalla foga della novità, dalle promesse che il futuro non si rifiuta mai di fare. E quando il futuro diventa presente e si rivela inadempiente, ci affrettiamo a metterne su uno nuovo di zecca e a lasciarci quello vecchio alle spalle. È la natura della fuga: supplizio e speranza. Certo, il più delle volte la bilancia finisce per pendere verso il primo: ma se fosse proprio questo, l’ostinazione inesausta per la ricerca di qualcosa che va oltre la nostra consapevolezza, a renderci umani?