Impietosa, schietta e tremendamente attuale, l’analisi sociale dell’autore catanese d’adozione ci permette di dare uno sguardo congiunto all’isola e alla Penisola, alla scoperta di quel costante meccanismo ciclico che impedisce a queste due realtà di progredire verso un futuro più equo: l’egoismo dei governanti che si preoccupano di conservare i loro privilegi a scapito dei governati

[dropcap]«[/dropcap] [dropcap]L[/dropcap] a storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore». Così Consalvo Uzeda, principe di Francalanza, in maniera lucida e spietata, fotografa la storia siciliana, immutabile nella sua arretratezza e specchio di della mentalità degli uomini che la popolano. O meglio, degli uomini che la controllano e che, mettendo radici nell’isola, possono al contempo proiettarsi sul resto d’Italia. Ed è proprio ciò che riesce a fare Consalvo, che al termine de I Viceré riuscirà a farsi eleggere deputato nazionale alle prime elezioni a suffragio allargato del 1882. La concezione della storia del principe, e dell’intera famiglia Uzeda, non è, quindi, solo la presa d’atto di uno stato di cose, ma un’intuizione decisiva per far sì che i potenti restino tali a lungo: se gli uomini sono gli stessi, allora esiste un meccanismo che guida le loro azioni, che si ripete e che, quindi, può essere capito e sfruttato con furbizia.

LA DENUNCIA DI UN PROGRESSO ILLUSORIO. È così che De Roberto, dallo speculum siciliano, mostra ai suoi lettori quale sia il movente che spinge gli uomini a desiderare di sopraffarsi l’un con l’altro, alla ricerca ossessiva di un potere cui solo pochi privilegiati potranno giungere: l’egoismo. Nessuna forza scorre nelle vene dei governanti più di questa e niente conta fuori dalla dimensione personale. E, si badi bene, in un periodo in cui nella nostra nazione si fa un gran parlare di governi del cambiamento, di rottamazione della vecchia classe politica o di recupero del prestigio internazionale, le crude verità messe in luce da De Roberto sono tutt’altro che le lamentele di un uomo risorgimentale deluso e forse un po’ troppo pessimista. Le parole del suo straordinario capolavoro sono la feroce denuncia di un progresso illusorio e lo smascheramento, ancora attuale, di un’intera classe sociale che da secoli si spartisce sottobanco il bottino alle spalle di chi, ignaro, crede di avere diritto ad una parte di quel bottino.

Porta Uzeda a Catania
Porta Uzeda a Catania

UN MECCANISMO “CICLICO”. Avete fatto caso, nel corso della storia siciliana e italiana, a cosa è successo dopo grandi sconvolgimenti che promettevano una radicale svolta come l’Unità, la cacciata dall’isola dei Borboni ad opera dei garibaldini o la nascita della Repubblica? Tutta l’energia che aveva portato a questi grandi eventi è sembrata affievolirsi pian piano, come se non avesse lasciato una traccia duratura, come se il malessere dei siciliani e degli italiani in quanto cittadini governati fosse incurabile nonostante ogni sforzo. E, in effetti, questa è anche la sensazione che affliggeva De Roberto, convinto che la vera svolta, quella nei fatti e non quella millantata da slogan accattivanti, fosse perennemente ritardata dalla determinazione dei ceti dirigenti, disposti a tutto pur di rimanere strenuamente attaccati a quei privilegi che sentono propri per nascita, perfino a cambiare spudoratamente schieramento rinnegando le convinzioni di una vita, come Consalvo, che da ostinato filoborbonico si “scopre” improvvisamente sostenitore dell’Italia unita, rendendosi conto che non esiste altro modo per restare in cima alla scala sociale. La storia, perciò, è una ripetizione, dove gli uomini sono sempre gli stessi, sì, ma dove lo sono anche i governanti, che come navigati attori mutano pelle, parole e perfino stemmi e bandiere, ma non i loro intenti. Pensando al presente, vi viene in mente qualcosa?

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