Quando si richiama alla mente la figura intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese, risulta quasi istintivo attribuire alla sua multiforme personalità il concetto di “ardore”. Certamente per la radicalità delle scelte che lo videro protagonista nella prima metà del Novecento (fu tra i pochissimi professori universitari a rifiutare il giuramento fascista), ma ancora di più per l’altissimo compito sociale ed etico che affidò alla propria letteratura. Non è un caso, del resto, che qualcuno sia arrivato a definirlo come l’erede di Dante (con cui tra l’altro condivise la traumatica esperienza dell’esilio) e Manzoni. Impegnate e corrosive, disincantate e affondate nei paradossi del reale sono le sue pagine. Pagine che, tuttavia, sono state spesso, e colpevolmente, accantonate in favore dell’illustre conterraneo Pirandello e soprattutto di Svevo, sebbene fosse stato proprio Borgese ad aver conferito maturità ai temi su cui si incardinerà La coscienza di Zeno. Lo aveva fatto con Rubè, raro esemplare di narrativa in un secolo dominato dalla poesia, manifesto generazionale di una gioventù calpestata dalle macerie della prima guerra mondiale e privata delle sue illusioni dalla scottante rivelazione totalitarista dell’azione mussoliniana. «La generazione alla quale io appartengo – affermava l’autore – ebbe un destino per certi aspetti troppo pesante e per certi altri un po’ futile. Fu costretta a rifarsi tutto da capo: il gusto, la cultura, le convinzioni, le idee».

Fu la Francia, prima ancora dell’Italia, a riconoscere nella vicenda dell’inadeguato Filippo le stimmate della grande letteratura, «una pietra miliare del nostro secolo», come fu detto. E, in effetti, le vicende di quel trentenne siciliano pieno di sogni e ambizioni, ansioso di lasciare l’asfittica miseria della sua terra in cerca di fortuna nella scintillante Roma, rappresentavano l’autentica cartina di tornasole di un mondo alla disperata ricerca della propria identità. Ben presto, infatti, il protagonista del romanzo di Borgese si trova costretto a prendere coscienza di un destino che va al di là dei suoi legittimi propositi: ferito a più riprese dagli assurdi bombardamenti di una guerra che originariamente non intendeva neppure combattere (si lascia convincere dal fronte degli interventisti che sostengono la necessità del conflitto), trova in Eugenia la sacra e consolatrice fiamma amorosa. Destinata a spegnersi poco dopo, sferzata dalla depressione a cui Filippo finisce per andare incontro. Perfino un’avventura extraconiugale con la conturbante Celestina Lambert si tramuta in tragedia: nel corso di una gita al lago, la barca si ribalta e la donna perde la vita, annegando davanti ai suoi occhi. Pur prosciolto dalla terribile accusa di omicidio, sarà per Filippo l’ennesimo dramma. Quello fatale. Disorientato e ferito, cerca di ricucire con la moglie incinta, ma il suo telegramma, a cui Eugenia non risponde decidendo di raggiungerlo a Bologna, apparentemente cade nel vuoto. E proprio tra le strade della città romagnola trova la morte: attirato da una manifestazione socialista particolarmente agitata, viene travolto dalla carica della polizia contro i manifestanti. A Filippo, come ulteriore beffa, verranno dedicati due elogi funebri: uno fascista e l’altro socialista. Immagine eloquente di un animo ridotto in frantumi, di una memoria vilipesa e fraintesa. È quasi un Pinocchio a cui è stata sottratta la magia della fiaba, quello che ci racconta Borgese: come il personaggio di Collodi, anche Filippo Rubè si imbatte in loschi figuri che lo traviano e viene coinvolto fortuitamente in surreali peripezie di cui fraintende il senso.

Ma qui, alla fine dell’avventura, non c’è la felicità tanto attesa a coronare gli sforzi e le sofferenze profusi. Non c’è la fata madrina a rimettere ordine nel caos e nella morale dell’intreccio narrativo, a salvare il protagonista dalle proprie insicurezze. Il romanzo di formazione tradizionale si sgretola dinanzi alla prepotenza della storia e dei suoi rapaci artefici, dinanzi alle morti, all’odio, all’insensatezza del male. Dinanzi all’ineludibile verità che altri, accecati dal miraggio del potere, celarono con ipocrisia. «Tanti scrittori – scrisse Sciascia a proposito di Borgese – lo invidiarono, qualche intrigo fu ordito a suo danno, qualche potente lo disprezzò al punto di volerlo perdonare. Ma soprattutto ebbe quella che, secondo Voltaire, è la sventura maggiore: che molti imbecilli lo giudicarono e forse ancora, senza conoscerlo, continuano a giudicarlo».

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