La vita è un cammino di pensieri: Borgese pellegrino tra Shakespeare e Leopardi

Nella raccolta Il pellegrino appassionato, lo scrittore siciliano elabora, non lesinando illustri citazioni, una serie di racconti, il cui tema è il legame tra senso del limite e movimento. Tra inerzia e forza del desiderio. Dicotomie millenarie, in mezzo alle quali ogni uomo, tra ansie, solitudini e meraviglie, si ritrova a vagare senza soluzione di continuità

Nel Dialogo della Natura e di un islandese, probabilmente la più celebre tra le Operette morali di Leopardi, il protagonista rivolge alla sua inconsueta interlocutrice queste parole: «Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano». Esiste, in effetti, nella percezione umana, questa sorta di paradossale correlazione tra erranza e desiderio. Tra le ristrettezze del vagabondaggio e il fascino ignoto di una meta dell’anima. Ma somiglia più ad un’illusione, o ad una perenne, irrisolvibile sospensione, questo sentimento d’evasione: come se i crucci e le ombre sul cuore smettessero di seguirci ad ogni nostro brusco ondeggiare. Come se lo spazio e il tempo consentissero alla nostra corsa di giungere al di là dei loro confini. Forse, allora, più che a quella di un fuggitivo, la vita dell’uomo somiglia a quella di un pellegrino. Di uno straniero che non conosce casa se non la propria fatica. Condannato e intimamente avvezzo al cammino dei pensieri. Sarà stata questa convinzione, unita ad un destino biografico da coraggioso girovago, a spingere Giuseppe Antonio Borgese ad intitolare una delle sue raccolte di racconti Il pellegrino appassionato (1933). Proprio negli anni in cui la sua opposizione al fascismo gli valse un non troppo velato invito del regime ad emigrare altrove, lo scrittore di Polizzi Generosa deve aver ripensato all’amato Shakespeare e alla sua omonima raccolta di liriche, nonché ad una delle struggenti dichiarazioni d’amore di Romeo a Giulietta, durante la quale il Montecchi si paragona proprio ad un pellegrino che conosce solo il coronamento del sogno amoroso come rimedio alla propria disperazione. E deve, naturalmente, aver pensato a sé stesso e all’insoddisfazione, alla radicale inadeguatezza che sentiva di covare nei riguardi di un mondo in cui faticava a riconoscersi.

Da qui nacquero quelle parole in transito. Corpi d’inchiostro immersi nella surrealtà del loro sentire. Accenti d’estraneità che finivano per assomigliare alla vita di ogni attento lettore. Dichiarazioni di poetica e di etica che andavano affermandosi ad ogni passo d’inchiostro. Scorci narrativi nei quali autore e personaggi arrivavano a specchiarsi l’uno nell’altro. Come accade nel racconto Il vedovo ad un’inquieta famiglia: «I Calúmi, venduta la villa che avevano sulle Prealpi, migrarono al mare; in cerca di sole. Ma il trapiantarsi non giovò, come a piante che non hanno voglia di riattecchire. Anche al mare li seguiva, pallido, il sentimento di vivere inutilmente; tranne che scopo della vita non fosse contemplare la vita, e volersi bene, in solitudine. Il mondo d’oggi però (lo sentiamo dire tutti i giorni) non è dei contemplativi; e anche quel volersi bene, senza mutamento, uguale sempre come il respiro, somigliava al sereno e alla bonaccia che sul nostro mare possono durare mesi, e qualche volta fanno desiderare la burrascaMa è questo – e non può essere altro – il senso più profondo dell’essere umani. Fingersi nel pensiero e rimanervi ferocemente aggrappati. Abbandonarsi alla corrente fino a sfiorare la deriva, cambiare rotta, solcare abissi, riemergere dove non da dove il viaggio aveva avuto inizio. E ricominciare. Ossessivamente. Istintivamente. «Siamo delusi del riposo, – si legge in un altro racconto, ovvero Valencia stanchi della solitudine in mezzo alla folla. Ci ha preso fastidio di questi uomini, di queste don­ne senza immaginazione, che non gustano il gioco della vita se non al tavolo del poker e non sentono il tempo se non nel tempo del fox-trot. Intorno a me, come sempre m’accade nel mondo di lusso, s’è fatto il deserto. Deserto di grande albergo; di luci crude, di perle, di sparati, di spalle color di rosa, di sbadigli con denti d’oro. Eppure, per accidia, non riusciamo a staccarci»

Dall’inerzia all’impulso del movimento. E viceversa. È tutto in questa combinazione di stati, ciò che definisce l’uomo. Il senso del limite e il suo valicamento. La libertà del cercare e la meraviglia del ritrovarsi. Anche se soli. Purché in movimento. Come l’islandese rincorso dai propri timori. Come Romeo, in cerca di un approdo del cuore. Come Borgese, pellegrino della modernità.

(Foto in copertina: Greg Rakozy | Unsplash)

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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