Le città fantasma del Far West – è innegabile – esercitano un fascino esotico sugli appassionati di cinema e letteratura. Strade polverose che conducono a saloon dai contorni rustici, vecchi e cigolanti orologi che sovrastano la quotidianità con le loro lancette ferrose e apparentemente immobili, lo scalpiccio e lo sbuffare dei cavalli in sosta su stalle di fortuna, esausti dopo un interminabile e arido galoppare. Che siate cresciuti con il mito hollywoodiano di John Wayne o con i duelli all’ultimo schioppo di Sergio Leone, è probabile che i resti solitari di quella grande – o presunta – epopea apparsi tra un documentario e una meticolosa ricostruzione museale abbiano riportato alla vostra mente immagini di questo tipo. Immagini fantastiche, da film, che fanno apparire quasi poetico uno spopolamento lento e inesorabile. La vita, tuttavia, è ben più che un film. E basta girare dietro l’angolo della nostra miopia per accorgersi che presto, se il trend non sarà invertito, saranno le città della nostra isola a fare la fine di quelle dei vecchi sceriffi. A diventare contenitori ricchi di storia e bellezza ma poveri di vita. È il report 2022 della Fondazione Migrantes a lanciare l’ennesimo campanello d’allarme: quasi un milione di siciliani vive ormai all’estero. E, come se non bastasse, la consueta diaspora giovanile impatta con sempre maggiore vigore sui centri dell’entroterra come Grammichele, Leonforte, Barrafranca, Ravanusa. Un elenco che potrebbe continuare, e che pone queste località isolane in vetta alla triste classifica delle comunità tra 10.000 e 100.000 abitanti che hanno sofferto il maggior numero di partenze nel 2021. Numeri che dovrebbero generare indignazione, sgomento, irrefrenabile voglia di riscatto. E che invece, come un ritornello che da ormai un secolo e mezzo accompagna le nostre vite, si appiattiscono nell’angusta intercapedine che esiste tra l’indifferenza e la rassegnazione. Per tentare di forzarla, di aprire uno spiraglio di rabbia propositiva, non resta, allora, che aggrapparsi a chi la rassegnazione non conosce. Alle parole della letteratura, dei poeti, ai sognatori stanchi ma mai sconfitti, a quelli che immaginano senza bisogno di vedere. Ai viaggiatori afflitti come Salvatore Quasimodo, segnati per sempre dal dramma della lontananza.

Tornano alla mente, infatti, i versi che l’autore modicano affidò ad una delle liriche più struggenti della raccolta La vita non è sogno (1949), che reca l’inequivocabile titolo di Lamento per il Sud. Uno sfogo amaro, a cuore aperto, eppure appassionato, radicato nell’incrollabile legame con una terra amata ma necessariamente allontanata. Separato dagli affetti, dalle abitudini rassicuranti, dalla familiarità di uno sguardo, condannato perennemente a sentirsi estraneo agli altri e a sé stesso, Quasimodo si lascia attraversare dalle generazioni, dall’andirivieni senza sosta di tanti conterranei in cerca di un posto nel mondo. Tre le sue parole, timidi e silenziosi, si stagliano i ragazzi che imbracciano la speranza come fanno con la loro chitarra consumata, genitori che custodiscono le fotografie dei figli in valigia, gli anziani che attendono dubbiosi di toccare un’ultima volta le sponde natie. Assolvendo al compito più nobile per un poeta, lo scrittore siciliano carica sulle sue spalle tutta la sofferenza della storia, tutto il disagio della disuguaglianza, tutta la dolcezza perduta e incagliata nei flebili lacci della memoria.

«La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve…
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.

Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
 in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.

E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore»

Parole che sembrano scritte oggi. Strali appuntite lanciate sotto quella coltre di stelle. Una coltre che, pian piano, i siciliani stanno imparando loro malgrado a guardare altrove. Ascoltando il riverbero della loro tristezza. Attendendo che incontri quello di qualcun altro. E che possa risuonare, per qualche attimo, delle note di casa.

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