Tutte le volte che il male si manifesta, nelle sue svariate e tragiche forme, finiamo per chiederci quale sia il motivo scatenante, primordiale, del suo accadere. Congetture astruse si fanno largo nella nostra mente, insieme a delle forzature interpretative che somigliano più ad un maldestro tentativo di razionalizzare lo scandalo di ciò che non persegue il bene. Si tenta, insomma, di scorgere i perché di un odio che striscia velenoso, da sempre, tra umano ed umano. Si chiamano in causa i traumi di infanzie difficili, la follia, la disgregazione di contesti familiari disastrati, i dettami dogmatici e ideologici di dottrine religiose e politiche totalizzanti. Come se tutto questo bastasse ad esorcizzare una verità che la realtà non rinuncia mai a sbattere in faccia alla nostra coscienza: contese, invidie, malizie e intolleranze sono parte integrante del nostro patrimonio genetico. Accade così che basti un nulla, un pretestuoso ed insignificante nulla, per accendere la scintilla perversa del dramma. Per far sì che l’innocenza si tramuti in colpa. Che un’etichetta assuma le sembianze di una perenne condanna. Che il luogo di nascita, le origini di un nonno perduto in chissà quale piega genealogica della storia, un nome vagamente esotico finiscano per erigere una angusta prigione di solitudine e pregiudizio. Nella quale, a più riprese, vennero rinchiusi anche i siciliani in diaspora, emigrati alla volta del mondo, appesi ad una fragile illusione di felicità e riscatto. Già gravati dalla sorte e dalla fatica dell’ignoto, si aggiunse infatti, ben presto il giogo della patente da stranieri indesiderati. Da ospiti costretti a sublimare quegli sguardi ostili in mansioni sempre in bilico tra sussistenza, miseria e sfruttamento. La loro voce, altrimenti dispersa in grida di amarezza, fu la poesia. Su tutte, quella di Ignazio Buttitta, compagna dei loro mesti e speranzosi viaggi, certo, ma anche garanzia di memoria. Al poeta di Bagheria si devono, infatti, dei versi struggenti e capaci di sottrarre alle sabbie del tempo alcuni veri e propri simboli dell’amaro destino isolano. Figure sparute, talvolta improbabili, che tuttavia racchiusero lo spirito più autentico – e anche sciagurato – di quell’odissea di partenze isolane.

Figure come quelle di Nunzio Licari. Finite ai margini di una narrazione assorbita dai grandi eventi collettivi – dall’orrore di Marcinelle alle storie del massiccio sbarco nel continente americano – eppure vittime di fatti di cronaca non meno incresciosi. Ed è proprio all’incredibile vicenda dell’operaio originario di Catenanuova (EN) che Buttitta dedicò una lirica manifesto, eloquente già dal titolo: U Razzismu. Secco, diretto, universale. Sintetico e tagliente come solo le grandi sentenze sanno essere. Perché null’altro poteva descrivere di ciò che avvenne in Germania, a Rosenheim, nel 1974, quando un ventunenne si scagliò ferocemente contro Licari, percuotendolo fino alla morte. Ancor più inquietante si rivelò la spiegazione che il giovane tedesco fornì alla polizia, ammettendo candidamente di non aver mai conosciuto prima la sua vittima: «L’ho aggredito perché mi ero accorto che si trattava di un italiano. Io non posso soffrire gli stranieri». Qualcuno, oggi, lo chiamerebbe un delitto senza movente. Dinanzi al quale ogni residuo di logicità lascia spazio ad un attonito silenzio. Lo stesso nel quale dovettero sprofondare i cinque figli per i quali Licati aveva tentato di sfuggire alle ristrettezze che la sua terra natale gli aveva riservato. Un silenzio rotto solo dalla magistrale sensibilità del nostro illustre poeta, che a quegli orfani impotenti, e all’eroismo caduto di un genitore come tanti altri rimasti nell’ombra, dedica il suo più accorato cordoglio:

«Era unu di chiddi, e sunnu tanti,
i canuscemu di facci e pirsuna;
ca partinu ca sorti d’emigranti
ncerca di pani e ncerca di furtuna;
e c’è cu i chiama zingari e cu i chiama
genti du Sud parenti da fami.

Era unu di chiddi du travagghiu
c’havia i manu ricchi e i vrazza sani;
e na ciuccata dintra senza scagghiu
senza muddíchi e né crusti di pani,
e la ciocca aggiuccata cu la vozza
vúncia di chiantu nni li cannarozza.

Era sicilianu e carni nostra
Nunziu Lìcari di Catinanova;
di picciriddu sucava culostra
nta scorcia di sò matri, comu ova;
di granni appi spini e appi chiova
ventu e timpesta e mai un’arba nova.

E da Germania, pi disfiziu e pena,
scrivía littri d’amuri e di focu:
“Si manciu o bivu agghiuttu vilenu,
semu spartuti ma u me cori è ddocu.
Cca sugnu un straniu, carni senza prezzu,
súcanu sangu e dunanu disprezzu”.

C’è cu ritorna e c’è cu non ritorna
e lassa l’ossa dintra li mineri;
cu chiudi l’occhi e chiudi li sò jorna
senza li figghi allatu e la muggheri;
e c’è cu resta ddà mortu ammazzatu
di manu strània supra i nciacatàtu.

Unu di chisti fu Nunziu Lìcari,
ora a famigghia ci arrivanu l’ossa;
e i picciriddi c’aspettanu u patri
tàlianu a casa e ci pari na fossa:
scrivía littri, ora a littra è iddu
ammazzatu nnuccenti e a sangu friddu».

Sì, ora Nunzio Licari è una lettera. È un documento del ricordo. La bandiera di una terra abituata a soffrire. Ma anche l’atto di accusa che Buttitta lanciò ad un mondo incapace di intraprendere la via di una pacifica convivenza.

Nella sua raccolta di riflessioni pubblicata nel 2006, Paulo Coelho scrisse: «Quando si avvicina uno straniero e noi lo confondiamo con un nostro fratello, ponendo fine a ogni conflitto. Ecco, questo è il momento in cui finisce la notte e comincia il giorno». E mentre ogni giorno si preferisce sparare piuttosto che tentare di comprendere le ragioni di chi la pensa diversamente, guardare al recente passato, a quando eravamo noi quelli disarmati con un fucile alla schiena, è un dovere. Per tenere a mente che siamo ancora in attesa del sorgere di quel giorno. E che non sorgerà affatto se chi ha già conosciuto la notte non sarà il primo a liberarsene.

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