Accompagnato da cinque stelle del jazz – Stefano Di Battista, Marco Brioschi, Rita Marcotulli, Riccardo Fioravanti e Israel Varela – l’istrionico e funambolico artista partenopeo rilegge la storia della canzone napoletana tra musica e teatro l’1 agosto a Taormina, il 2 a Palermo. Un omaggio anche a Pino Daniele. Del “Nero a metà” «inciderò “Core fujente”». «Tutto iniziò da un rimbrotto di Anna Magnani»

È l’istrione del teatro italiano, ed è anche lo stakanovista della scena nazionale. Massimo Ranieri, 68 anni, ha un calendario fitto di appuntamenti fino al maggio 2020, protagonista, pardon, mattatore di ben tre spettacoli differenti: “Sogno o son desto”, di derivazione televisiva (in onda nell’estate delle repliche della Rai), show nel quale l’artista mescola tutti i suoi successi con quelli dei grandi autori di musica e teatro, da Viviani a Gaber, con oltre 500 repliche; il “Gabbiano” di Anton Cechov per la regìa di Giancarlo Sepe in teatro; e “Malìa Napoletana”, concerto in cui Ranieri divide il palcoscenico con professionisti dell’improvvisazione, permettendosi di fare davvero l’americano di Napoli, il napoletano d’America, puntando sulla convivenza di due culture musicali profondamente diverse, eppure capaci nel tempo di influenzarsi a vicenda. Teatralità, recita del night, sodalizio che evoca frasari e scambi degli anni Cinquanta e Sessanta, e molta vitale drammaturgia del fare musica, convivono in “Malìa Napoletana”, lo spettacolo con cui Massimo Ranieri torna in Sicilia (il primo agosto al Teatro antico di Taormina e l’indomani al Castello a Mare di Palermo).

Una “chicca”, perché è difficile mettere insieme nella stessa serata cinque stelle del calibro di Stefano Di Battista ai sassofoni, Marco Brioschi alla tromba e al flicorno, Rita Marcotulli al pianoforte, Riccardo Fioravanti al contrabbasso e Israel Varela alla batteria.  Con loro Ranieri ha intrapreso un viaggio verso un incantesimo. Una sorprendente avventura musicale in un tempo magico delle canzoni napoletane, quando tra la fine degli Anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta quelle melodie già universali si riempirono improvvisamente di estate e di erotismo, di notti e di lune. E si vestirono di un fascino elegante e internazionale. È l’inconfondibile Napoli “caprese”, che diventò in un baleno attraente, seducente, prestigiosa e sexy come una stella del cinema. Una Napoli che cantava e incantava. E che è diventata una immortale “Malìa”, come suggerisce il titolo del progetto che ha conquistato anche la platea di Umbria Jazz. «Adesso posso dire che ci sono stato, pensi: “Rose Rosse” a Umbria Jazz. Ho saltato più in alto di Bubka. Le emozioni sono il sale della vita».

Massimo Ranieri: «Ho iniziato l’avventura di “Malìa” quasi per scommessa. Perché è bello, alla mia età, sentirsi di nuovo un debuttante e poi, piano piano, fare sul serio»

Singolare connubio, con Marcotulli, Di Battista e company: «Il segreto è che in quei giorni in cui ci vediamo, parliamo cantiamo, ridiamo, mangiamo, e alla fine si fondono queste personalità. In tutta la giornata ci diciamo sì e no cinque cose, ma c’è quell’assenso senza parlare, si capisce la stima e la bellezza dello stare insieme. Loro sanno che debbono fare cose che non hanno mai fatto. Io so che debbo cantare con dei sublimi musicisti. E tutto diventa fluido, non c’è l’ansia». Tant’è che “Malìa” ha avuto un due capitoli. «Ho iniziato questa avventura quasi per scommessa, continuando nel percorso di rilettura del pianeta “CantaNapoli” intrapreso con Mauro Pagani. Perché è bello, alla mia età, sentirsi di nuovo un debuttante e poi, piano piano, fare sul serio» racconta la voce di “Perdere l’amore”.  In “Malìa 2” ci sono omaggi più o meno diretti al suo pantheon verace personale. Partendo da “Che t’aggia dì”, da Sergio Bruni, ‘a voce ‘e Napule. «A parte l’esperienza da tredicenne quando il maestro mi volle come sua spalla in America, a me che non avevo mai visto nemmeno Roma, Bruni è la canzone napoletana, il canto napoletano. Come dimenticarsi degli echi rurali che metteva in “Giacca rossa ‘e russetto” (1958), che portiamo in Sudamerica, o in “Vieneme ‘nzuonno”, perla del Festival di Napoli del 1958 da noi rivissuta come uno slow swing? Il jazzista ha il privilegio di scegliere di suonare cose che ama, mi sono sentito un jazzista almeno in questo».

«Sono molto legato a Mimmo (Domenico Modugno, ndr), e quella delizia tenera e discreta che è “Musetto” meritava di finire tra le nostre malìe»

“Giacca rossa ‘e russetto” è invece un omaggio a Renato Carosone. «Senza di lui non si parlerebbe di canzone napoletana moderna. Quel pezzo l’ha scritto con Nisa, il paroliere di tanti successi, compreso “Torero”, che abbiamo destrutturato con estremo rispetto». Poi c’è Totò  con la sua “Malafemmena”, e c’è Domenico Modugno, con “Strada ‘nfosa” e “Musetto”, che però è in italiano. «A Mimmo io sono troppo legato e questa delizia tenera e discreta meritava di finire tra le nostre malìe, con una intro gershwiniana e poi armonie sorprendenti».

Nei due appuntamenti siciliani, Ranieri potrebbe però cominciare con “Tutta n’ata storia” di Pino Daniele, dedicandogli quel “Muoiono i poeti ma non muore la poesia/ perché la poesia è infinita come la vita”.  Se si è più fortunati, si potrebbe ascoltare in anteprima l’inedito del “Nero a metà” che Ranieri ha inciso per il suo album di inediti in corso di lavori. Il brano s’intitola “Core fujente” e fu scritto per il film d’animazione “Opopomoz” (2004) del regista napoletano Enzo D’Alò. Mai incisa, ha subìto diverse stesure da parte dello stesso autore. «Io l’ho lasciato così com’era» spiega Ranieri. «Era un pezzo bello così: corto, delicato, discreto, come un cuore fuggente appunto. L’ho arrangiato per chitarra, archi, un pizzico di batteria». Ad impreziosirlo ci ha pensato Enzo Avitabile con un intervento di saxello, strumento a metà strada tra sassofono e ciaramella.

La riscoperta artistica delle radici napoletane, con questa nuova chiave jazz, riporta alla mente del funambolico artista napoletano il divertente aneddoto di un rimprovero amorevole nel momento in cui stava decollando la sua carriera. «Fu Anna Magnani a farmelo» ricorda. «Un giorno mi disse: “Regazzì, senti un po’ ‘sta canzone…”. Era “Reginella”, anche se io, giuro, non l’avevo mai sentita prima. Ad Anna cascarono le braccia: “Non la conosci? Ma che razza di napoletano sei? Avanti, canta!”». E così, un po’ perplesso, iniziò a cantare. Da allora non ha più smesso.

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