Walter Benjamin, uno dei più raffinati pensatori del ‘900, sosteneva che per avere una visione del mondo quanto più completa e sincera possibile fosse necessario «passare la storia a contrappelo». Ovvero andare oltre la magnificenza delle grandi gesta, svincolarsi dal fascino perverso delle celebri battaglie, sforzarsi di allargare il proprio sguardo ai tumulti silenziosi di tutte le generazioni rimaste senza voce e senza rappresentanza. Calarsi, quindi, tra i budelli di enormi città, tra il chiacchiericcio popolano, tra la miseria dei dimenticati dal potere, dove la tradizione scandisce il succedersi degli anni. Nella concezione di Benjamin, insomma, la storia non è appena un fatto: ma anche un’idea, un costume, la ricostruzione pluralistica di tanti punti di vista. Non sempre, tuttavia, la storia è stata all’altezza di questa nobile aspirazione. Ed a più riprese, con la sua capacità di attingere alla memoria e al verosimile, è toccato alla letteratura farsi carico della sua crucialità. Recarsi dove nessun altro sarebbe stato disposto a mettere piede. Dare un tocco di luce a ciò che era rimasto colpevolmente nell’oscurità. La letteratura, d’altronde, nelle periferie e nei centri dislocati, spesso, è proprio nata. Lo dimostra il caso di Giuseppe Bonaviri, scrittore isolano che dalla mitica lontananza della sua Mineo seppe leggere con razionalità scientifica (era un cardiologo) e sentimento lirico le pieghe di un mondo apparentemente in evoluzione, eppure ancora, staticamente, agganciato alle sue minute certezze. Uno dei frutti più preziosi di questa duplice espressione letteraria è certamente L’enorme tempo, pubblicato nel 1976 da Rizzoli e poi successivamente riedito da Sellerio. In questa sorta di diario romanzesco, Bonaviri ripercorre la sua attività di medico – di frequente porta a porta – all’indomani della Seconda guerra mondiale, in quegli anni ’50 intrisi di illusioni progressiste e falcidiati da indicibili ristrettezze.  Tra quella gente che ferita dal passato e timorosa del futuro, si arrabattava tra la nebbia del presente.

«I viaggiatori erano pochi, intristiti dalla nuvolaglia che piovosa affondava nei seminati striminziti. Qualcuno – scrive Bonaviri quasi a voler cristallizzare fin dagli esordi la dimensione onirica del paese – sorseggiava vino rosso da un fiasco ed altri, con la testa ciondoloni, seguivano i loro intristiti pensieri. Il treno andava lentamente, tutto nero in quei curvi campi, dove, ogni tanto, impaurita qualche pernice si levava da nascosti valloncelli». Lungo il corso di quelle strade all’apparenza deserte, ma in realtà affollate di vite sofferenti ingabbiate dall’indifferenza di una parete, lo scrittore si muoveva un po’ come lo Juvenal Urbino di Gabriel García Márquez. Medico, sì, ma anche confidente. Volto amico e fedele nella precarietà. Dinanzi ai suoi occhi, nell’asfittico spazio di una stanza adattata alla bene e meglio per fargli posto, si paravano le inalienabili leggi dell’universo, lo scorrere macchinoso ma inesorabile delle generazioni, il frangersi ondoso dei ricordi. Vita e morte, salute e malattia, pimpante giovinezza e fiaccata vecchiaia, sogni e rimpianti si alternavano senza soluzione di continuità, immersi in quella sospensione temporale che fa capolino fin dal titolo. Tutto cambia forma e al tempo stesso si irrigidisce nella sua immutabilità: i giovani, che avrebbero dovuto raccogliere il testimone degli anziani con entusiasmo creativo, si allineavano, poco a poco, al solco tracciato dai padri. I loro volti trasfigurati in quelli degli avi, in un eterno ritorno legato al ciclo della terra, del bestiame da custodire in casa per garantirsi una stiracchiata sopravvivenza, del malessere fisico e morale che sembra una piaga fatale da scontare. Del favolistico rifugiarsi tra le parole e i gesti della consuetudine. Tra realismo e surrealismo. «Non c’è rapporto – avrà a dire Bonaviri commentando la sua opera – tra la scrittura e il lavoro di medico. Il solo rapporto consiste nel fatto che come medico sono sceso nei labirinti del dolore umano. Ho un’esperienza che tanti altri che sono scrittori qualificati, o tali si credono, non hanno assolutamente. Una vasta esperienza anche della gioia, della guarigione».

Quelle periferie esplorate da Bonaviri, quegli angoli trasparenti di umanità, sono ancora i nostri. Alle spalle delle nostre case. Dispersi sui mappamondi della nostra indifferenza. Attraversati dallo stesso enorme tempo, ma mai davvero scalfiti. Storie dentro la Storia. Che passano. E restano.

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