A lungo il modicano fu lontano dalla sua terra, sperimentando la solitudine del distacco, unita alla tragicità che le conseguenze delle due guerre portarono con sé. Ma il ricordo delle proprie origini, celebrato da una poesia di sentimento, lo ricongiunse sempre agli affetti che aveva lasciato, consegnando all’eternità l’immagine di questa terra come ancora di salvezza per tutti i suoi figli che si sentono soli

La solitudine, nel dipanarsi della vita umana, assomiglia ad una vera e propria categoria dello spirito. Che si tratti di una situazione passeggera o prolungata, ricercata o capitata, è probabile che la percezione, più o meno fondata, di aver attraversato un periodo di distacco, di allontanamento da qualcuno o qualcosa, sia sorta in ognuno di noi. E allo stesso modo, in ognuno di noi ha suscitato una reazione differente: alcuni ne sono rimasti prigionieri fino al punto da spegnersi nella loro vitalità; altri hanno trasformato la solitudine in uno sprone per risalire la china delle loro esistenze. Ma c’è un’altra tipologia di individui: coloro che da questo sentimento, usato come ponte per scavare nella profondità delle loro anime, hanno tratto le note per il loro canto. Proprio a questo genere di esseri umani appartengono generalmente i poeti e il nostro Salvatore Quasimodo non sfugge certo alla classificazione. Originario di Modica e vincitore del Nobel per la Letteratura nel 1959, il nostro conterraneo visse, per di più, da vicino le vicende delle guerre mondiali. Prima a Roma, e poi, soprattutto, a Firenze con il circolo delle Giubbe Rosse – anima dell’Ermetismo – e a Milano, Quasimodo passò lunghi tratti della sua vita lontano dal suolo natìo: un vero e proprio esilio, una singolare solitudine che influenzò notevolmente la sua produzione.

Ma come si combatte la condanna della lontananza? Il poeta, in quanto siciliano, lo sapeva bene: fu proprio la Sicilia una delle fonti principali da cui attingere le parole della sua poesia. Perché nel desiderio sconfinato di mantenersi in contatto con la vita precedente, di richiamare alla memoria i motivi di una partenza dolorosa, di spiegare l’orrore inusitato dei conflitti, Quasimodo scoprì che è restando ancorati a ciò che ci ha dato la vita che si possono spezzare le catene dell’esilio. In versi celebri come «Ma se torno a tue rive/e dolce voce al canto/chiama da strada timorosa/non so se infanzia o amore,/ansia d’altri cieli mi volge,/e mi nascondo nelle perdute cose» tratti dalla poesia Isola o come «Tindari, mite ti so/fra larghi colli pensile sull’acque/dell’isole dolci del dio/oggi m’assali/e ti chini in cuore» di Vento a Tindari emerge con forza l’anelito del poeta, indissolubilmente avvinto dalle immagini familiari di una Sicilia misteriosa e calorosa, veracemente selvaggia e affettuosamente raffinata. L’ansia del poeta, quella di un ritorno impossibile e di un’infanzia paradisiaca turbata dal distacco e dalla guerra, è però, al tempo stesso, la scintilla che anima la sua lirica, il pozzo nel cui fondo scoprire la profondità del significato dell’esistenza dell’intera umanità. E proprio qui, proprio nella solenne ricongiunzione con la sua origine, di cui è artefice la voce del poeta, la lontananza lascia il posto alla fratellanza con coloro che sono rimasti, con cui, a qualsiasi latitudine, si condivide la sofferenza di una vita minacciata dalla fragilità e la ricerca anche solo di un attimo di pace e di bellezza nella contemplazione della propria terra.

Immagine d’epoca che immortala un incontro presso il Caffé delle Giubbe Rosse di Firenze

L’Ermetismo di Quasimodo, dunque, non va visto come un narcisistico ripiegamento, come espressione di un malessere individuale, ma come la lotta per la conquista di una comunione più profonda, un salto nella direzione di una riappacificazione con una sorte avversa. La Sicilia della poesia di Quasimodo è la risposta a una secolare nostalgia, il mezzo per mantenersi uomini nella bestialità della guerra e nella gabbia della distanza grazie alla conservazione dei ricordi. È la coscienza della debolezza di un “io” in balia della storia, che però, con l’ausilio di uomini dallo stesso sentire, può tramutarsi in un “noi”. Il senso di una pace perduta che fa capolino, il centro in cui convergono speranze e rimpianti. La prova che il vero esilio non è abbandonare la Sicilia, ma dimenticarne la centralità nelle nostre vite. Dimenticare che tutto, della nostra storia, parte da lì. E che allo stesso modo tutto, grazie alla poesia e alla letteratura che cancellano la distanza, lì si concluderà.

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