Quella dei pionieri, dei coraggiosi avventurieri che hanno attraversato frontiere che molti nemmeno credevano poter esistere, è una storia piena di contraddizioni. Il peso delle loro conquiste, la responsabilità più o meno conscia delle loro azioni, cozza spesso con il totale oblio della memoria. Col piattume di una consuetudine che oggi non fa notizia e che, miope, non scorge più le sue radici. Sono spesso, questi pionieri in cerca d’autore, uomini e donne dal fare non convenzionale, sregolati interpreti dei limiti posti loro dalla tradizione, bislacche singolarità nel flusso apparentemente lineare degli eventi. Stranieri alla loro stessa patria, al loro stesso tempo. Incompresi portatori di futuro. In mezzo alla schiera di tali figure trascurate, benché periodicamente il suo nome sia affiorato qua e là, ce n’è una che noi siciliano dovremmo ben conoscere, dal momento che gran parte della sua leggendaria storia è stata scritta proprio tra le vie dell’isola. Tra i suoi immutabili simboli. Si tratta di Emily Lowe, scrittrice e viaggiatrice britannica vissuta nella seconda metà del XIX secolo, che con la sua genialità e la sua sfrontatezza seppe inanellare un primato dopo l’altro. Fu, infatti, la prima donna capace di ottenere il titolo di Capitano navale in Inghilterra e la prima a comandare interamente l’equipaggio di una nave di grosso calibro in una traversata del Mediterraneo. La sua brama di scoperta conosceva soltanto un’unica inclinazione di pari valore: la passione per la scrittura, attraverso la quale annotava minuziosamente tutte le impressioni suscitate in lei dalla meraviglia dei suoi viaggi. L’apice di questo connubio si ebbe proprio in Sicilia, – tappa obbligata, com’è noto, dei classici Grand Tour da temperie romantica – alle pendici di quell’Etna che tanto la Lowe aveva vagheggiato. E al cospetto del quale il suo incedere segnò un ulteriore, significativo traguardo.

Già il titolo del resoconto, pubblicato nel 1859, restituisce la dimensione di quella “impresa”: Donne indifese in Sicilia, Calabria e sulla cima del Monte Etna. In barba al pensiero comune, alle accuse di dubbia moralità, alle ipocrite e paternalistiche etichette borghesi, Emily non volle al suo fianco alcun accompagnatore maschile. Partì alla volta dell’isola soltanto con la madre, osservando con arguzia e meraviglia ciò che la nostra terra, conosciuta allora soltanto attraverso il mito, aveva da offrirle. Perfino la straniante calorosità siciliana, che nelle primissime battute del suo arrivo a Palermo quasi la assale ossessivamente nei gesti «dei venturini che ci implorano di montare sui loro calessi per compiere un giro turistico». Nulla sfugge al suo occhio clinico, nemmeno la Cripta dei Cappuccini che le desta un misto di terrore e curiosità. Nemmeno la Sicilia più recondita, quella dal cuore selvaggio e incontaminato. La Sicilia interna, quella dei percorsi meno battuti, quella delle Madonie, quella di Caltanissetta e Canicattì, che Emily scruta ardentemente, come i volti degli abitanti che le restituiscono un che di autentico e che si scandalizzano della sua emancipazione. Fino al susseguirsi serrato delle altre tappe: Agrigento, la Valle dei Templi, la casa silenziosa e monumentale degli dèi dormienti, la Enna sicana in cui viene messa in guardia rispetto al suo proposito di scalare il vulcano. E poi, finalmente, tra ripari di fortuna e sentieri accidentati, l’arrivo a Catania. «Dall’una alle quattro – racconta la donna soffermandosi su un’abitudine che certo non possiamo definire svanita – è l’ora della siesta gli abitanti riposano, i tendoni vengono tirati giù per coprire i tanti bazar e le porte serrate dei negozi. Tutt’intorno un silenzio pompeiano rotto solamente dal rombo di un veicolo simile al fragore di un terremoto». La sua impazienza di ascendere sulla cima dell’Etna viene rimandata dal meteo inclemente. Poco male: la signora Lowe giunge al Monastero dei Benedettini. Anche se, con sua grande sorpresa, l’accesso le è parzialmente negato: «Agli uomini è consentito ammirare l’interno del monastero che si dice sia un luogo molto confortevole, mentre le donne non possono, ahimè, entrare e devono accontentarsi di dare uno sguardo fugace in giardino dove i monaci mostrano orgogliosi un tratto scuro di lava sopra una roccia, che durante la violenta eruzione del vulcano fu sul punto di travolgere l’aranceto e la vigna del giardino».

Risalendo metaforicamente quell’ancestrale getto di lava, il clou del suo viaggio finalmente si realizza: i suoi passi affondando nella calda cenere etnea. «L’Etna è una piramide che domina tutta la natura e tutto l’orizzonte circostante, i miseri esseri sulla sua cima sono come sospesi in aria e si limitano a tenersi in equilibrio con la loro povera coppia di piedi sulla cenere mobile, mentre tutta la Sicilia aspetta di ricevere le loro ossa quando, storditi per la caduta, rotolano a valle».

Messina e Siracusa sanciranno poi il suo congedo. Ma quell’impressione, ben più che una semplice fascinazione turistica, quell’orgoglio femminista ante-litteram per lo straordinario risultato ottenuto, non la abbandoneranno nemmeno al ritorno in patria, quando il suo suggestivo racconto contribuirà ad alimentare il sogno siciliano dei tanti aspiranti viaggiatori. Ma anche a decostruire alcune comuni credenze. L’ennesimo, innegabile primato di una donna da record.

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