Detenere un primato, spesso, può rivelarsi un fardello gravoso. L’anticamera dell’isolamento, dell’incomprensione. Un marchio inspiegabile di oblio. È quasi una condanna, quella che accompagna coloro che sono stati capaci di vivere al di là degli orizzonti del proprio tempo. Tanto fulminei nel loro balenare in solitaria su vette inesplorate, altrettanto rapidamente confinati al ruolo di bizzarri ribelli da cui prendere le distanze, di pericolosi e incoscienti sobillatori dell’ordine costituito. Colpevoli, agli occhi degli ipocriti e dei benpensanti, di aver svelato verità che meritavano, piuttosto, di restare sepolte. Un accanimento sistematico e meschino verso la genialità, verrebbe da dire. Che finiva per raddoppiare la sua ferocia quando, per mezzo della propria arte o della propria scrittura, a farsi portavoce di questa radicale istanza di cambiamento fosse stata una donna. Un retaggio storico, certo, ma non poi così lontano, se pensiamo che, ancora, agli inizi della seconda metà del’900, il suo peso si abbatteva su di loro come uno stigma. Esemplare, in tal senso, è la vita dell’autrice Livia De Stefani, straordinaria pioniera non solo delle lettere, ma anche dell’attivismo femminista e dell’imprenditoria, la quale, snodandosi tra stereotipi latenti ed aperti osteggiamenti, seppe farsi largo in un’epoca – e in un terra – che avrebbe voluto relegarla al ruolo di sommessa comprimaria.

Ma agli schemi predeterminati la De Stefani fu sempre intollerante. Lo fu sin dalla tenerissima età scolare, in cui già l’agiata famiglia da cui trasse i natali cominciava a mettersi di traverso rispetto alla sua passione letteraria, che già fioriva con delicatezza nei primi componimenti poetici. Lo fu poi da ragazza, appena diciassettenne, nella scelta ostinata e granitica di abbandonare la Sicilia che tanto l’aveva gravata con la sua stagnante grettezza per dirigersi a Roma negli anni ‘30. Ma di quell’isola così disperatamente patriarcale, ciclicamente abbarbicata alla logica del privilegio e delle classi sociali, così miope nel affibbiare alle donne la cura della casa come massima aspirazione, la scrittrice di Palermo portò sempre con sé delle profonde, dolceamare cicatrici. Non soltanto perché in Sicilia fu di frequente costretta a tornare per attendere al ruolo di amministratrice delle terre che aveva ricevuto come lascito familiare, ma anche per il ruolo che questa ebbe, costantemente, sul suo immaginario letterario. Basterebbe citare il suo romanzo d’esordio, ovvero La vigna delle uve nere (1953), per ritrovare tanti degli stilemi che le furono cari per tutta la vita: l’insensatezza e la brutalità dei codici d’onore, le faide familiari spesso sfociate nel sangue, le soffocanti clausure domestiche delle donne trascinate di generazione in generazione. Fu il romanzo della fama, ma anche del risentimento: accusata di denigrare l’isola che l’aveva partorita, la De Stefani venne progressivamente emarginata dal dibattito pubblico e accerchiata, per quel ritratto bestiale e quasi preistorico che emergeva dalle sue opere, da una parte di Sicilia che tentava scientemente di smussare l’immagine della propria arroganza e del proprio oscurantismo. Un’ostilità che la nostra conterranea sperimentò in più forme, lei che, da fiera e competente proprietaria terriera, assistette in prima persona ai voraci appetiti della mafia e dei suoi boss, con cui dovette più volte confrontarsi. Ne venne fuori un libro divenuto una vera e propria pietra miliare: un mese prima della sua scomparsa, nel 1991, fu pubblicato La mafia alle mie spalle. Vale a dire il primo volume in cui una donna affrontava senza filtri e senza timori l’argomento mafioso. «Ero una donna tutta sola piantata in mezzo a problemi virili – scrisse a proposito della sua doppia battaglia libertario Livia De Stefani, come riporta la voce dell’Enciclopedia delle donne a lei dedicata e curata da Ester Rizzo – senza l’aiuto di un incoraggiamento, sia pure d’un sorriso…mi dibattevo come un farfallone attirato a notte da un lume traditore, acciecata da cose che dovevo ancora imparare a temere. Era una brutta, bieca società maschilista…e che fosse anche mafiosa me ne resi conto non per vie deduttive ma per quelle dell’osservazione diretta».

Di lei, così sfrontata nel reclamare un legittimo spazio per il proprio ingegno, rimane una vita inimitabile, passata ad abbattere barriere fino a quel momento ritenute invalicabili. Rimane lo spirito indomito di una donna capace di librarsi sopra le righe del destino immaginato per lei da altri. Il coraggio di chi non combatte solo per sé, ma per tutti coloro che non possono farlo o che, ancora, non sanno di volerlo fare.

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