Scriveva Haruki Murakami: «La maggior parte delle persone non crede nella verità, ma in ciò che desidera sia la verità. Per quanto questa gente possa tenere gli occhi bene aperti, in realtà non vede niente». Perché la verità, in effetti, più che di semplice constatazione è questione di intuito. È l’insidia dell’ovvietà che si offre con ingannevole immediatezza. La ferrea e insidiosa bugia della logica che impone la sua causalità ignorando qualsiasi possibile controcanto. La conclusione di un’indagine che accantona frettolosamente ogni ragionevole dubbio. Il trionfo del compromesso, insomma, che insabbia di sé ogni divergenza, ogni piega dai tratti peculiari, ogni mistero che meriterebbe una riflessione ulteriore. È, se vogliamo, questa etichetta di inossidabile certezza che siamo soliti dare alle verità che ci vengono proposte, una sorta di rinuncia all’etica. Una partecipazione pigra e indolente alle sfumature della complessità. O, ancor peggio, la connivenza rispetto alle narrazioni deviate, costruite – e ricostruite – artificialmente. Fortuna vuole che la letteratura non tardi mai a ridestarci da questo torpore. Che diversi suoi messaggeri, facendosi largo tra queste rovine di ambiguità e menzogne come abili archeologi, si siano instancabilmente battuti per preservare il sano germe dell’incredulità. Messaggeri illustri come Leonardo Sciascia, che mai di certo, nelle sue indagini d’inchiostro, rinunciò ad assecondare l’impulso interiore di riscoprire l’altrove, l’ignorato, il sottovalutato, il censurato. Che mai, nella ricerca costante di orizzonti ulteriori, si accontentò delle soluzioni a salda portata di mano.

Non fece eccezione, in questo senso, la scrupolosa rilettura dei documenti relativi ad un fatto di cronaca d’epoca fascista avvenuto in Sicilia, che ebbe una notevole risonanza mediatica. Quell’illuminista viaggio a ritroso, compiuto nel 1971 interrompendo la stesura de Il contesto, sarebbe poi diventato quel testo agile e denso che oggi conosciamo come Atti relativi alla morte di Raymond Roussel. Una vicenda, quella della morte del celebre scrittore francese, che venne presto – prestissimo – derubricata come un incidente dai contorni chiari. E che invece, nell’incalzante ricostruzione di Sciascia, appare come un mistero che potrebbe, ancora oggi, non aver detto tutto di sé. Quando, infatti, nel luglio 1933, Roussel venne trovato dal facchino Antonio Kreuz riverso senza vita su un materasso, nella camera 224 dell’Hotel des Palmes di Palermo – lo stesso in cui soggiornò, tra gli altri, anche Richard Wagner alle prese con la composizione del Parsifal – gli inquirenti non ebbero alcuna esitazione di sorta nell’esporre le proprie conclusioni. La scena del crimine, d’altro canto, sembrava eloquente: non vi erano segni di effrazione e tra i comodini e i cassetti erano stati ritrovati diversi flaconi di farmaci. «Il suddetto Roussel – si legge nella perizia medica riportata da Sciascia – ritengo che sia deceduto per morte naturale, probabilmente causata da una intossicazione di narcotici e sonniferi rivenuti in grande quantità nella stanza, per cui ritengo inutile l’autopsia. Escludo altresì che la morte sia dipendente da un fatto violento». Tutto archiviato, dunque, come un maldestro errore di dosaggio che lo scrittore transalpino avrebbe commesso nel tentativo di conciliare il sonno. Nessun bisogno di procedere ad ulteriori esami. Nessuna curiosità di approfondire gli ultimi giorni e le ultime ore di vita di Roussel, né i profili degli occupanti delle stanze attigue. Eppure già all’epoca il nipote aveva adombrato qualcosa di sinistro. La possibilità che quella morte così apparentemente beffarda – «il cadavere indossa le vestimenta, cioè: camicia bianca da notte, mutande bianche, calze nere e magliettina di filolana colore champagne» – fosse in realtà il risultato di un silenzioso dipanarsi di intrighi. O, ancora più probabilmente, di una scelta. L’epilogo di una parabola esistenziale culminata nella drammatica parola mai menzionata nel corso delle indagini: suicidio. E se con l’avanzare della narrazione sono sempre crescenti le storture evidenziate da Sciascia, tra cancellature, sovrascrizioni, interventi diplomatici francesi, personaggi sospetti volutamente ignorati dalle indagini e persino errori macroscopici (in un verbale Roussel viene chiamato Armand), si fa largo, parallelamente, l’idea che probabilmente quel suicidio – se tale è stato – fu volutamente coperto. Perché il regime fascista, all’apogeo del suo prestigio e della sua influenza, non poteva permettersi un tale smacco.

Nessuno avrebbe dovuto sospettare che in quella stanza palermitana potesse essersi ripetuto l’esempio di Catone l’Uticense, uccisosi in segno di ribellione all’ascesa di Giulio Cesare. Uccisosi per sfuggire disperatamente all’oppressione di una tirannide. Forse Raymond, di cui pure si disse senza alcuna prova che aveva optato per la morte in seguito alla contrazione di debiti, aveva semplicemente presagito ciò che di lì a poco sarebbe avvenuto. Lo scivolamento inesorabile dell’Europa, del mondo, della civiltà nei meandri più oscuri di sé. E forse, facendo ciò, operando sulla propria persona l’ultima dimostrazione possibile di libertà, aveva intaccato l’orgoglio fascista, rendendo manifesto quanto impossibile fosse conviverci. Lo stesso Sciascia non manca di far notare come fosse prassi delle autorità di regime «mettere alacremente sotto silenzio tutti quei casi in cui il “taedium vitae” assurgesse a tragici esiti». A quasi un secolo di distanza, trovare risposte certe è pressoché impossibile. Ma a volte il dubbio vale più di mille risposte.

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