Berlino è una città ferita. Talvolta la cicatrice che la percorre si materializza sugli ampi viali della città imperiale dove persino il traffico appare centellinato, nella forma dei resti del muro che l’ha tagliata in due per decenni. Altre volte, più spesso, la ferita l’attraversa sotterranea, come una storia di cui tacere, come i tunnel scavati dagli abitanti di Berlino Est per fuggire dal “paradiso obbligatorio” organizzato dal regime comunista e cercare libertà e felicità in offerta speciale nella parte Ovest.

A condurmi davanti all’”Ampelmann”, il caratteristico omino col cappello che campeggia sui semafori della parte della città che un tempo era DDR, nei pressi di Alexanderplatz, è un progetto Erasmus disegnato per favorire la mobilità degli insegnanti delle scuole medie e superiori interamente finanziato con fondi europei. L’EU si rivela finalmente concretamente amica!

La parte del programma che mi interessa di più si chiama “job shadowing”. Mi viene permesso, cioè, di entrare in una scuola tedesca per fare da “ombra” a un docente che insegna inglese a studentesse e studenti tedeschi. Ho quindi la possibilità di osservare in atto, metodi e strategie didattiche, dinamiche comunicative tra insegnanti e la classe e tra i suoi componenti. Non vedo l’ora iniziare.

L’insegnante che seguirò io è italiana. L’inglese che insegna nei corsi base (3 ore settimanali) o in quelli avanzati (5 ore) delle ultime classi, il tredicesimo anno, è di altissimo livello. Pur avendo studiato negli States, conseguito un PHD in Germania e insegnato in una università tedesca, non ritiene di essere “un cervello in fuga”. «Piuttosto, – afferma – una donna europea, aperta a un orizzonte più grande dei confini nazionali, che ha trovato qui la propria strada».

La scuola in cui ci troviamo è una Katholische Sekundar Schule. Con i suoi 900 studenti, è una delle tantissime scuole parificate che lo Stato sovvenziona all’ 85%. Non ci sono bidelli e, nelle 26 ore di lavoro settimanale, i docenti svolgono anche aspetti amministrativi e di sorveglianza per uno stipendio di circa tremilaquattrocento euro mensili.

Entriamo in classe. Appello: Janina, Eleonora, Jonas, Victor, Matilda, Aetan, Minh. La prima cosa che salta agli occhi, oltre alla composizione multietnica degli alunni, è il loro numero. Oggi sono in tredici! Anzi no, quattrodici. Namdy, cappuccio tirato su fino alla fronte, arriva in ritardo e si spiaggia, col suo metro e novanta, sull’ultimo banco accanto all’ampia finestra. I ragazzi sono uguali dappertutto: ne sono sollevato.

Alla vigilia dell’esame conclusivo del percorso scolastico, il tema dell’ultimo semestre, è “Save the Planet”. L’approfondimento di oggi riguarda le inondazioni in Pakistan. I ragazzi non seguono un testo. Il materiale viene fornito loro dagli insegnanti, che lo preparano a casa utilizzando articoli centrati sull’attualità e che presentano un linguaggio tecnico talmente specifico che io, onestamente, avrei timore a usare. La lezione ha ritmi intensi ritagliati in “pillole” da 8-10 minuti ciascuna. “Warm up”, proposta di un testo o di un ascolto preso da un giornale o da youtube, esercizi su vocaboli e struttura, produzione di un testo o somministrazione di una verifica. Durata complessiva? Non oltre i 45 minuti. Seguono sempre dei break di varia lunghezza, considerati essenziali per favorire un maggiore rendimento scolastico degli studenti. La struttura del semestre, insieme alla necessità di scegliere corsi base o avanzati in numero stabilito (questi ultimi non più di due a Berlino, ma ogni Land ha regole proprie) fa sì che la composizione della classe possa variare nell’arco degli anni.

«Riuscite a diventare amici anche se vi trovate in classe per un solo semestre?» chiedo a Victor, diciotto anni, brasiliano di origine. «Durante i primi anni scolastici, in realtà, si cambia di meno – risponde – poi ci si perde un po’ di vista, ma non importa, ciascuno segue strade diverse in vista delle scelte che ciascuno farà all fine del percorso scolastico». Pongo la domanda sui rapporti tra coetanei anche a Aetan, figlio di genitori somali. «Vi capita di uscire insieme?» «No, non è molto frequente» ammette. «Ad esempio, vi invitate in occasione dei compleanni? Tu li inviteresti?» «No – risponde sorridendo gentilmente – ciascuno ha il proprio gruppo di amici».

In questa terra in cui la divisione, nella forma indegna dell’odio razziale o, in modo più sottile, della divisione ideologica, ha dilaniato la carne del suo popolo, il modello culturale che si impone oggi è quello che pretende di debellare i conflitti eliminando le differenze e ammettendo tutte le opinioni e i comportamenti. «Questa impostazione funziona davvero nella realtà»?

«In apparenza sì» mi spiega Lotte, una collega esperta, «ma se scaviamo un po’, sulle questioni dell’identità di genere, per esempio, emergono atteggiamenti di intolleranza. C’è un “machismo” inaccettabile che dipende molto dal contesto familiare dei ragazzi, sia di origine tedesca che straniera. Credo che la scuola dovrebbe essere più intransigente con questi alunni ed espellerli».

Sono perplesso. Il cane rischia di mordersi la coda: tutto è ammesso purché in linea col pensiero dominante. Non sarebbe pensabile – propongo –  un luogo di dialogo, cominciando dalla scuola, in cui si può restare amici pur non essendo d’accordo?

Namdy non è vuole commentare l’incontro con Bernardine Evaristo, a cui ha partecipato insieme alla classe nel corso dell’Internationales Literaturfestival. I temi, talvolta estremi, esplorati attraverso le figure femminili della scrittrice afro-inglese, dice, non lo interessano. Magda, la mia insegnante di riferimento, però, ha deciso di leggere ugualmente in classe l’incipit di un possibile racconto sulla fine del mondo scritto proprio dal suo alunno di origini nigeriane. «È molto intelligente mi confida. Il semestre scorso era sempre assente, Adesso va meglio. Spero si diplomi».

«Perché ti sei fermata in questa scuola?» le domando incuriosito. «Ho girato molto – mi confessa – Alla fine qui, mi sono sentita a mio agio. C’è tanta gente che viene da posti diversi. I miei alunni hanno origini asiatiche, africane; adesso sono arrivati gli ucraini, prima i polacchi e i siriani. Penso sia la radice cattolica che ha costruito questa scuola che favorisce questo. Anche se mi chiedono di andare a messa due volte l’anno non importa. Mi sembra ci sia spazio per tutti. Non è scontato».

Forse l’ideale di unità e di pace che il nostro tempo insegue, non è poi così distante dal cielo che sovrasta Berlino e le sue cicatrici. Forse una traccia viva di quell’ideale percorre l’Europa dalla Germania alla Sicilia ed è presente, nelle sue radici.

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