«Quel giorno rientravo in redazione da Milano, dove ero stato a una conferenza stampa della Disney. Immaginavo di potermi ritagliare del tempo per scrivere un piccolo articolo, ma appena misi piede in ufficio e trovai i colleghi radunati attorno ai televisori capii immediatamente che quello non sarebbe stato il giorno di Topolino. Al direttore, che ai tempi era Marcello Sorgi, venne l’idea di fare una edizione straordinaria con l’intenzione di venderla tramite gli strilloni ai lavoratori che da lì a qualche ora sarebbero usciti dagli uffici e che probabilmente erano ignari dell’accaduto e chiese a me di coordinarla». L’11 settembre 2001 “La Stampa” realizzò la sua ultima edizione straordinaria. Non accadeva dal ‘91 (quando il giornale torinese raccontò il golpe in URSS) e in un certo senso rappresentò il canto del cigno del giornale cartaceo come primaria fonte d’informazione sui fatti del momento.  Oggi, con le notizie che ci inseguono sui nostri smartphone, sarebbe inimmaginabile pensare di trascorrere un pomeriggio rimanendo all’oscuro di un evento così clamoroso, eppure appena vent’anni fa il giornale torinese rispondeva a una reale esigenza. 

«Non dimenticherò mai che quando il direttore apparve in TV dicendo “tra mezz’ora saremo per le strade di Torino con un’edizione straordinaria”, noi avevamo di fronte un foglio bianco»

Ne abbiamo parlato con Guido Tiberga, caporedattore del quotidiano torinese, oggi coordinatore delle edizioni locali, che all’epoca lavorava all’ufficio centrale de “La Stampa”. «L’idea fu quella di un titolo forte, “Attacco all’America” (che poi fu ripreso sul giornale del giorno successivo, ndr), una foto e un commento di Sorgi, oltre ad alcune pagine di approfondimento, con infografiche e le notizie di cui disponevamo al momento a Torino. Non dimenticherò mai che quando il direttore apparve in una trasmissione televisiva annunciando “tra mezz’ora saremo per le strade di Torino con un’edizione straordinaria” noi avevamo ancora davanti a noi un foglio bianco. Però sotto pressione spesso si è portati a dare il 200% e così alla fine riuscimmo nell’impresa. Vi lavorai con alcuni colleghi tra cui due giovanissimi giornalisti: Jacopo Iacoboni che oggi è una firma della politica e Federico Monga, che oggi è il direttore del Mattino di Napoli».

Quali furono le principali difficoltà a cui andaste incontro?
«La parte più complicata fu mettere in moto tutta la macchina organizzativa. Abbiamo dovuto richiamare al lavoro i tipografi, i rotativisti – che normalmente lavorano di notte – e gli strilloni a un orario insolito. E abbiamo dovuto fare delle scelte su dove mandarli a vendere i giornali, optando per le vie di Torino che potevano essere più trafficate a quell’ora. Dal punto di vista del nostro lavoro in redazione, invece, non è stato molto diverso da quello che fanno oggi normalmente i colleghi sul web, anche se, a differenza loro, non abbiamo avuto la possibilità di fare delle rettifiche in tempo reale, ma ci siamo dovuti confrontare con il “buio” che si verifica da quando un’edizione viene chiusa in redazione a quando il giornale viene distribuito».

Questo “buio” pesa ancora oggi nei giornali soprattutto in alcuni casi particolari, come votazioni ed elezioni. All’indomani della Brexit, nel 2016, alcune testate hanno titolato “La Gran Bretagna rimane nell’UE”. Come ci si comporta in questi casi?
«Diciamo che, soprattutto quando si lavora con gli exit poll, è opportuno essere prudenti il più possibile. Il fatto è che le proiezioni dei risultati non sono mai del tutto attendibili, specie quando le sorti si decidono per via di pochi punti percentuali. Ricordo che nel 1999, quando lavoravo a Roma, stavamo seguendo l’esito del referendum sull’abolizione della quota proporzionale prevista dalla legge elettorale. Le proiezioni fino a mezzanotte davano un risultato sicuro: con una partecipazione del 51% della popolazione, ma alla fine alle consultazioni emerse che il dato reale era il 49,6% e che quindi il quorum non era stato raggiunto. I giornali dell’indomani si smentivano a vicenda, perché non tutti erano riusciti a correggersi per tempo. Nel tempo il nostro è diventato un lavoro un po’ strano: la gente si informa sul web mentre noi usciamo in edicola con una cosa vecchia di almeno cinque ore, che rischia di essere ribaltata. Tuttavia, nel caso di fatti importanti è complicato decidere cosa fare: devi essere prudente, ma non puoi non dare la notizia e far finta che non sia successo nulla». 

«Credo che sia necessario un nuovo approccio: considerare la stessa notizia che fino a dieci anni fa era il punto d’arrivo come un punto di partenza»

“La Stampa” è stato uno dei primi in Italia a introdurre il “digital first”, percorrendo la strada del web come luogo delle breaking news e del cartaceo come quello dell’approfondimento. Vale anche per l’informazione locale, che tradizionalmente è più incentrata sulle notizie?
«In passato il giornale era l’unico depositario dell’informazione locale, ma oggi anche la più piccola provincia ha almeno un sito d’informazione che brucia tutti i comunicati stampa, facendo copia incolla e dando le notizie di un sequestro o un arresto, anche di poca rilevanza. Allora diventa evidente che se vuoi che i lettori continuino a comprarti in edicola devi dar loro qualcosa in più, ma al contempo non puoi nemmeno ignorare queste notizie dando per scontato che tutti le abbiano lette sui social. Oltretutto, fare cose interessanti, al di là della cronaca, in una piccola provincia dove non succede granché è difficile».

Come uscire da questa impasse, allora?
«Credo che sia necessario un nuovo approccio: considerare la stessa notizia che fino a dieci anni fa era il punto d’arrivo come un punto di partenza. Faccio un esempio: recentemente una giovane collaboratrice della redazione di Asti  – che sto guidando “ad interim” oltre al coordinamento generale di tutte le edizioni locali della Stampa – mi ha proposto un articolo sull’arresto di due ladri di biciclette. Le ho risposto che di per sé il fatto non era particolarmente significativo e che affinché diventasse una notizia da giornale bisognava fare un lavoro di approfondimento. Lavorandoci un po’ su è emerso come i furti di biciclette fossero in effettivo aumento a discapito dei dati ufficiali, poiché non tutti i casi vengono denunciati alle autorità, e come vi sia una particolare attenzione alle biciclette elettriche, le quali possono anche valere migliaia di euro. Con un po’ di fatica siamo riusciti a confezionare un articolo che andasse oltre la singola notizia. Questo approccio non vale soltanto per la cronaca, ma per tutti gli ambiti. Certo, spesso questo per un collaboratore esterno di un giornale si tramuta in un lavoro complesso, rispetto al quale non verrà pagato più di chi si limita a riportare una notizia. Ma per i giovani questa è la sfida, e rappresenta un’opportunità per dimostrare il proprio valore: chi sogna di fare il giornalista lo fa perché vuole raccontare ciò che ha visto, non per fare il copia-incolla di un comunicato della questura o del comune».

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