Un suono russo, duro e morbido nello stesso tempo. Un bel suono se non fosse un’arma fatta per uccidere. Ha un sapore esotico e sensuale come James Bond. Al suono si associa un’atmosfera di segreti, sangue, rivoluzioni, guerre, loschi traffici criminali. Il nome è il titolo di un libro, l’ultimo scritto dal noto giornalista Domenico Quirico. È proprio il suo lavoro nei paesi dei conflitti, dei kalashnikov che lo ha portato a scrivere questo libro, ispirato dalla storia del suo inventore: Michail Timofeevič Kalašnikov.

Ha il ritmo di un romanzo e la narrativa di un saggio. Leggere il libro sembra di giocare a scacchi con un avversario vestito di grigio per il suo continuo intercalare tra la vita di Kalašnikov e quella di Quirico. Una vita a tinte grigie per l’atteggiamento sovietico ubbidiente al comando anche a quello più spietato. Una vita a colori, quella di un pellegrino indomabile insaziabile di notizie, di vita vera, di sangue, di morti e di incenso per i nuovi nati. Il male si alimenta da chi procede metodicamente alla costruzione di un oggetto che serve a morire. La vita si avvolge intorno allo stesso oggetto che ne alimenta la sopravvivenza. Domenico Quirico è riuscito in un’impresa non scontata. Un abile scrittore che ricama le storie intorno a quest’arma micidiale a partire da colui che l’ha pensata, studiata, provata, perfezionata, realizzata.

«Io non sono responsabile di niente. Non ho ucciso nessuno, la notte non ho incubi. Io non sono responsabile di niente. Io sono un artigiano, un meccanico, un operaio».

Michail Timofeevič Kalašnikov

D’altronde questo libro è più che mai attuale per il continuo giocare a fioretto da parte dello scrittore con due mondi: quello di Kalashnikov e quello delle guerre reali, sulla cultura della potenza, della forza, degli eroi, della morte. Sì, come se la morte non avesse peso, consistenza, come se l’essere umano fosse privo di tridimensionalità. O meglio, come se la vita dipendesse da quanta forza, coraggio riesci a dimostrare. Allora Quirico, nel capitolo sul Mozambico, scrive: «Ripenso al kalashnikov sulla bandiera: il coraggio la tenacia del popolo. Il popolo… il popolo. Quando dicono questa parola credono di aver detto tutto. Già il popolo eroico». Il libro prosegue con le immagini delle devastanti catastrofi del popolo eroico del Mozambico per poi ritornare alla vita di Kalashnikov: «Io non sono responsabile di niente. Non ho ucciso nessuno, la notte non ho incubi. Dopo che i traditori hanno rinnegato tutto quello che eravamo, il nostro passato, la nostra storia gloriosa, fa comodo dire: “Se nel mondo ci sono – quanti? – cento, duecento, trecento milioni di esemplari dell’arma che tu, Michail Timofeevič, hai inventato, e se ognuno di quei fucili ha ucciso anche solo una persona, allora tu sei il più grande assassino della storia. Più di Hitler…”. Io non sono responsabile di niente. Io sono un artigiano, un meccanico, un operaio».

Quirico racconta le sue esperienze, la narrazione ritorna a toccare le coscienze e a ricordarci che questo libro è un saggio di realtà

Il libro sembra un romanzo per la semplice ragione che vicende vissute in prima persona e riportate dallo stesso testimone hanno il sapore di un racconto di fantasia e, solamente quando Quirico racconta le sue esperienze, la narrazione ritorna a toccare le coscienze e a ricordarci che questo libro è un saggio di realtà: «Gli occhi dei bambini di Kibati: Dio mio, li avete mai visti quegli occhi voi ministri degli esteri, segretari generali, funzionari dell’Onu o della Banca mondiale? No, non li avete visti perché in questo caso non avreste detto che, invano dopo averlo ripetuto mille volte, che nella parte orientale del Congo si rischia la più grande catastrofe umanitaria dei tempi moderni. Non li avete visti quegli occhi quando siete passati da Goma, capitale del Kivu perennemente assediata da qualcuno, e vi hanno portato soltanto al quartier generale dell’inutile, tremebondo esercito con il casco blu dell’Onu. Kibati? Che cosa è Kibati?».

La copertina del libro

Poi si passa alla Somalia, a Grozny, alla Siria e a coloro che Quirico incontra nella sua esperienza di reporter. Figure “lucignole” con atteggiamenti normali, impregnati di quella cultura legata alla violenza, all’ignoranza, alla povertà che in quei paesi attiene alla normalità. Allora si alza un urlo disperato per voler capire se è veramente vero, se è veramente così, se quegli episodi sono proprio come li ha vissuti. Poi, il libro ritorna al torpore di Kalashnikov e la realtà torna a sembrare più leggera. Anche il carattere della scrittura nel libro cambia dimensione, più piccola, e anche il colore da nero diventa grigio. «“Tu hai aiutato il regime che ha ammazzato tuo padre a diventare invincibile. Non ti penti? Non rinneghi?” Certo che so quanto accadeva. Non ero cieco. Nella primavera del ’33 li ho visti con i miei occhi: donne e bambini con il ventre gonfio, che respiravano ancora ma negli occhi non avevano più vita, e i cadaveri nelle capanne avvolti in laceri pastrani di pelle. Ho visto. E non sono impazzito e non mi sono ucciso. C’era un manifesto in paese: “La vita è diventata più facile, la vita è diventata più allegra”. Cosa potevamo fare? Cercavamo di sopravvivere. Non vivevamo nelle grandi città. Da noi non arrivava neppure l’eco di quanto accadeva a Mosca, a Leningrado, che su ordine di Stalin aver condiviso l’idea della rivoluzione permanente fosse diventato un delitto, che si dava la caccia agli opportunisti, ai mostri destri sinistri, agli aborti trotzkisti, che gli operativniki arrivavano all’alba e ordinavano di prendere un po’ di biancheria e seguirli, e che le mogli dei nemici del popolo li rinnegavano seduta stante rifiutando loro l’ultimo saluto ai figli. Noi non immaginavamo nulla. Vivevamo come al tempo delle baba e dello zar, la nostra ossessione era di non arrivare all’inverno senza aver accumulato cibo sufficiente».

Quirico ha visto, sentito, provato dal Congo a Gaza, oggi potrebbe accadere qui in Italia e Kalashnikov continuerebbe a non ritenersi colpevole

Un libro che funziona più di tante fiction. Mettetevi seduti, iniziate a leggere e alla fine vi sentirete smarriti, assetati nel deserto. Assetati di pace. Basta leggere: «Gli occhi dei due uomini in ginocchio per un attimo furono quelli che hanno i bambini nel loro immenso stupore del mondo. I corpi si contorsero come serpi, si inondarono di panico, di silenzio. Lo sparo rimbalzò contro la collina del coltan e fu inghiottito dalla foresta». Ciò che Quirico ha visto, sentito, provato in Congo, in Somalia, in Ucraina, in Siria, a Grozny, in Cecenia, a Gaza, oggi potrebbe accadere qui in Italia e Kalashnikov continuerebbe a chiudere gli occhi, lasciando continuare a Quirico la narrazione del male della guerra. Lui d’altronde non è colpevole.

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